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Visualizzazione dei post da 2018

Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

O. Henry: Il dono dei Re Magi

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E d anche quest'anno è di nuovo Natale. E come di consueto, accanto all'albero, al presepe, e ai doni, tornano anche tutte quelle piccole abitudini personali che ciascuno di noi mantiene vive negli anni e che, col passare del tempo, si sono trasformate in tradizioni irrinunciabili senza le quali non sembrerebbe neppure Natale. Nel mio caso, ce n'è soprattutto una a cui mi dedico volentieri ogni dicembre, ed è la lettura di racconti natalizi. Personalmente, del Natale amo ogni sfumatura: dalla sua essenza più autentica e spirituale, che è la radice stessa del cristianesimo, alla componente più frivola, fatta di luci colorate, regali da scartare ed alberi scintillanti; fin da piccola, però, un aspetto del Natale mi ha sempre affascinato in modo speciale: quello umano. Già, perchè, come ho poi realizzato, con maggior consapevolezza, crescendo, le Feste - ancor più di ogni altra circostanza della nostra vita - riescono a portare alla luce con particolare trasparenza gli as

Louisa May Alcott: Racconti di Natale

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S e, come affermò il Sunday Telegraph  esattamente trent'anni fa, Charles Dickens fu "l'uomo che inventò il Natale", non c'è dubbio che Louisa May Alcott sia stata invece la donna che ha saputo rappresentarne al meglio la dimensione più intima e familiare. Per accorgersene è sufficiente dedicare qualche ora ai suoi Racconti di Natale : un autentico inno ai valori tradizionali, attraverso cui riscoprire ed assaporare le atmosfere inconfondibili dei Natali di una volta. Quando ho iniziato la lettura di questa raccolta, le aspettative, lo ammetto, non erano delle più elevate: temevo, infatti, d'imbattermi nell'ennesima selezione di racconti moraleggianti in perfetto stile "Famiglia March", innaffiati di melassa e corredati dall'imprescindibile lieto fine dove i buoni trionfano, e gli egoisti (perché immaginare la presenza di un "cattivo" vero e proprio in questo genere letterario, sarebbe davvero troppo) si redimono... E in effetti,

Charles Dickens: Le ultime parole dell'anno vecchio

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T ra tutte le qualità e gli innumerevoli talenti che hanno contribuito a rendere Charles Dickens uno degli autori più popolari d'ogni tempo, ce n'è una che apprezzo in modo particolare, ed è la sua singolare capacità di riuscire a parlare al cuore di un pubblico trasversale. Non importano l'età, la cultura o le esperienze di chi legge: nelle storie che Dickens racconta, nei sentimenti che descrive e nelle atmosfere che le sue parole sanno magicamente rievocare, tutti possiamo ritrovare qualcosa di noi: qualcosa che abbiamo vissuto, provato o immaginato... qualcosa, in breve, di insolitamente familiare. Che questo fosse il suo intento, del resto, lo scrittore lo dichiarò esplicitamente nel 1850 quando, dando alle stampe il primo numero della sua rivista Household Words ( Parole di uso familiare , appunto) egli scrisse: “La nostra aspirazione è di entrare a far parte degli affetti domestici e dei pensieri quotidiani dei nostri lettori. Speriamo di divenire compagni di viag

Gunnar Gunnarsson: Il pastore d'Islanda

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È la Prima Domenica d'Avvento : l'inizio di un tempo sacro, il principio della lunga attesa che condurrà al Natale, e in questa giornata speciale, Benedikt, pastore cinquantaquattrenne, si accinge, per la ventisettesima volta, ad intraprendere il suo pellegrinaggio annuale tra i monti d'Islanda, alla ricerca delle pecore smarrite da radunare e riportare a casa. A scortarlo in questo ardito compito, come di consueto, il flemmatico montone Roccia e il vivace cane Leó: due insostituibili compagni di viaggio a cui lo unisce da tempo un legame profondo, di quelli possibili, forse, “solo tra specie animali molto diverse, e che nessuna ombra del proprio io o del proprio sangue, nessun desiderio o passione personale può confondere o oscurare”. E così, sfidando il clima e procedendo intrepido tra l'oscurità e la tormenta, il singolare terzetto - la "santa trinità" com'è stato ribattezzato dai compaesani - si addentra lungo un cammino irto di ostacol

Stefan Zweig: Maria Stuarda.
Storia di due regine, storia di due donne.

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R estituire ai personaggi storici la loro dimensione umana: ecco il grande merito di Stefan Zweig. Può sembrare banale, ma se c'è qualcosa di veramente sorprendente in quest'opera dedicata a Maria Stuarda , è proprio la singolare bravura dell'autore nel ricordarci che dietro quei nomi stampati nei libri di Storia, oltre quelle figure ritratte sulla tela e celebrate nei poemi, vi sono stati innanzitutto degli esseri umani, delle persone in carne ed ossa con sentimenti, pensieri, aspirazioni e sofferenze; con un mondo interiore, insomma, simile in tutto e per tutto a quello di qualsiasi uomo o donna dei giorni nostri. Certo, occorre calarsi nella mentalità dell'epoca, accogliere di buon grado i valori di un mondo in cui, per un trono, si uccidevano i propri consanguinei, e comprendere le logiche di una società che considerava moralmente accettabile sacrificare innocenti ragazzine sull'altare del matrimonio al fine di trarne vantaggi politici... Ciò che resta al d

Henry James: L'americano.
La bellezza della grande Letteratura dimenticata.

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A l giorno d'oggi c'è una tendenza particolarmente in voga in ambito letterario, che, lo ammetto, mi lascia sempre piuttosto perplessa: è la sorprendente leggerezza con cui si fa uso del termine "capolavoro". Autori alla moda, libri sostanzialmente mediocri, contenuti discutibili... Tutto viene inglobato con facilità nella categoria della "grande letteratura", spesso senza possedere alcun merito. Poi capita tra le mani un romanzo come The American , semi-sconosciuto ai lettori italiani, ed anche in linea generale, tra i lavori meno noti di Henry James, e istantaneamente si ha l'esatta percezione di cosa sia davvero la Letteratura con la L maiuscola. Christopher Newman, trentaseienne americano di successo, dopo una vita trascorsa negli affari, decide di prendersi una meritata vacanza e recarsi per la prima volta in Europa, per godere dei piaceri della vita e, possibilmente, trovare la donna perfetta con cui mettere su famiglia. Un po'spaesato di fro

Herbert G. Jenkins: Patricia Brent, zitella.

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C he sia sul grande schermo, o tra le pagine di un libro, poche cose riescono a sorprendermi in positivo quanto una commedia realmente ben fatta: perché, nonostante le apparenze, quello dell'intrattenimento disimpegnato è un terreno assai scivoloso, e accade spesso che chi vi si dedica inciampi nella banalità, nel luogo comune o, peggio ancora, nel cattivo gusto. Se tuttavia è vero che far sorridere con garbo e intelligenza è generalmente prerogativa di pochi eletti (e al giorno d'oggi sarebbe più corretto dire di pochissimi!), è altrettanto vero che tra i principali depositari di quest'arte vi sono gli inglesi, da sempre maestri di arguzia, stile, e di quella dote preziosissima e non comune meglio nota come autoironia. Pubblicato nel 1918 e solo di recente tradotto in italiano grazie ad Elliot Edizioni , Patricia Brent, zitella , simpatica commedia degli equivoci dal taglio cinematografico, ne è uno dei più chiari esempi. La protagonista - Patricia, appunto - è una ventiq

Quando il capolavoro delude.
Anna Karenina di Lev Tolstoj

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A ccade prima o poi, nella vita di ogni lettore, di imbattersi in qualche grossa delusione: una lettura da cui ci si attendeva molto, e che invece, inaspettatamente, lascia del tutto insoddisfatti. Può succedere, è normale, e così ci si separa dal libro senza rimpianti, semplicemente sperando che la prossima scelta si riveli più felice. Quando però il libro in questione è un grande classico, uno di quei romanzi universalmente considerati degli intoccabili capolavori della letteratura, allora la delusione si fa particolarmente acuta, e il senso di malcontento che ne consegue diventa molto più difficile da mandar giù. Così, in breve, si può riassumere la mia personale esperienza con Anna Karenina , monumentale opera di Lev Tolstoj costata al suo autore anni di lavoro, più volte trasposta sullo schermo, e tutt'ora annoverata tra gli indiscussi capisaldi della letteratura d'ogni tempo. “Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.”