Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Gunnar Gunnarsson: Il pastore d'Islanda

È la Prima Domenica d'Avvento: l'inizio di un tempo sacro, il principio della lunga attesa che condurrà al Natale, e in questa giornata speciale, Benedikt, pastore cinquantaquattrenne, si accinge, per la ventisettesima volta, ad intraprendere il suo pellegrinaggio annuale tra i monti d'Islanda, alla ricerca delle pecore smarrite da radunare e riportare a casa.
A scortarlo in questo ardito compito, come di consueto, il flemmatico montone Roccia e il vivace cane Leó: due insostituibili compagni di viaggio a cui lo unisce da tempo un legame profondo, di quelli possibili, forse,

“solo tra specie animali molto diverse, e che nessuna ombra del proprio io o del proprio sangue, nessun desiderio o passione personale può confondere o oscurare”.

E così, sfidando il clima e procedendo intrepido tra l'oscurità e la tormenta, il singolare terzetto - la "santa trinità" com'è stato ribattezzato dai compaesani - si addentra lungo un cammino irto di ostacoli, su per quelle vette che, anno dopo anno, hanno visto Benedikt avanzare nel sentiero della vita, rinunciare alle proprie ambizioni, spogliarsi delle proprie paure, ed imparare a vivere serenamente la solitudine, vale a dire la 
“condizione stessa dell'esistenza”. 
Eppure, questa volta è diverso: per la prima volta, dirigendosi verso i pendii nevosi e lasciandosi alle spalle i suoni e la vitalità del villaggio, il viandante avverte un'insolita nostalgia, forse perché, in quel congedo temporaneo dai luoghi della civiltà, egli intravede una sorta di preludio del distacco definitivo. Ed ecco che, quasi inconsapevolmente, quel viaggio solenne tra le montagne diviene per Benedikt l'occasione per guardare dentro se stesso; un'opportunità per riflettere, forse non del tutto consciamente, sul passato, sul presente, sul grande mistero della vita e della morte.


Gunnar Gunnarsson - principale esponente della letteratura islandese, candidato più volte al Premio Nobel - pubblicò il romanzo nel 1936, ma in verità l'avventura di Benedikt e dei suoi fedeli amici potrebbe tranquillamente svolgersi in qualsiasi periodo storico: perché là, in quell'immoto regno del ghiaccio dove il cielo si confonde con la terra, e la coltre bianca sembra segnare il confine estremo tra la dimensione terrena e la vita eterna, anche l'esistenza umana appare cristallizzata, sospesa per sempre in un'epoca indistinta, al di fuori del tempo e dello spazio.
Pochi sono i dialoghi tra i personaggi, scarna ed essenziale la trama; il paesaggio dell'Islanda, però - protagonista assoluto di questa breve opera dall'insolito fascino - pulsa come materia viva tra le pagine del libro, coi suoi contorni sfumati nella bufera, col suo silenzio spettrale e i fugaci mattini crepuscolari, intriso di un realismo tale da avvolgerci completamente, fino al punto di farci percepire quasi fisicamente il freddo pungente che penetra nelle ossa, la sensazione dell'aria gelida sulla pelle, il tepore rinfrancante di un fuocherello acceso nel rigore dell'interminabile notte artica.
Gunnar Gunnarsson
Coniugando l'innata vena poetica con una prosa semplice e priva di orpelli, l'autore ci racconta così un universo inviolato, quasi surreale, dove è possibile un rapporto diretto e paritario tra tutti gli esseri viventi; dove la frugalità dell'esistenza avvicina l'individuo alla sostanza più profonda delle cose; dove ogni uomo, libero dalle sovrastrutture della società moderna, può aspirare realmente ad una piena comunione col resto del creato, appagato da ciò che possiede, e beatamente ignaro dei grandi drammi che affliggono il resto delle civiltà.
Sarà infatti con un comprensibile stupore che qualcuno osserverà:

“All'estero sono gli uomini, e non le pecore, a morire di freddo. È tutto alla rovescia. E non gelano soltanto: crepano come mosche di fame e di miseria, perfino d’estate e sotto il sole. (...) Laggiù nelle grandi nazioni centinaia di migliaia di persone, molte più che in Islanda con tutte le isole e gli arcipelaghi che ci circondano, sono disoccupate e si trascinano in giro senza niente da fare.”

A metà tra racconto d'avventura, cronaca di viaggio e narrazione mistica, Il pastore d'Islanda è un libro pervaso in ogni riga dal senso dell'attesa, imbevuto di una spiritualità genuina che trascende il credo individuale, e ci restituisce appieno il significato di quell'Advent - questo il titolo originale del romanzo - in cui è racchiusa l'essenza stessa della vita del protagonista.
Perché dopotutto, come si chiede il narratore:

“Cos’era la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall’attesa, dalla speranza, dalla preparazione?”

E mentre, all'indomani del Natale, la "santa trinità" riprende il cammino, e un'altra avventura - almeno per quest'anno - volge al termine, è impossibile non riconoscere nel pellegrinaggio di Benedikt, sia pur nel suo piccolo, un debole riflesso luminoso della stessa missione di Cristo.

“Quel viaggio era come una poesia, con rime e parole magnifiche che restavano nel sangue. E come una poesia, col tempo s’imparava a memoria e poi si sentiva il bisogno di tornare, per accertarsi che nulla fosse cambiato. E così era: tutto era ancora estraneo e inaccessibile, eppure familiare e inevitabile. Benedikt si sentì invadere da una pace assoluta.”

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