Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Edith Wharton: Estate

Secondo il calendario, è passato circa un mese dall'ultima volta in cui mi sono seduta al computer per dedicarmi al blog; eppure, l'impressione, è che di tempo ne sia trascorso, in realtà, molto di più.
Sarà probabilmente colpa del clima, o per meglio dire, di quella repentina - e per me sempre un po' traumatica - transizione verso la bella stagione, che congedando i primi scorci di una primavera tardiva, ci ha catapultato in men che non si dica tra gli scenari infuocati di un'estate a dir poco rovente!
Sono bastati appena pochi giorni, ed il vociare scalmanato dei ragazzini che si riversavano per strada all'uscita da scuola, ha ceduto il passo al silenzio assordante dei lunghi pomeriggi estivi, interrotto soltanto dal rumore fugace di qualche auto lungo le vie semideserte, e dall'incessante canto dei tanti uccelli che dimorano in città: compagnia ormai costante - e, ahimè, non sempre gradita - nelle troppe notti insonni di questa stagione.
Da sempre, l'estate, mi ha fatto pensare ad una specie di pausa dalla vita normale: il tempo che si dilata; la voglia di stare all'aria aperta che prevale sul desiderio di tepore casalingo; la routine quotidiana che lascia il posto a nuove e più libere abitudini... Poi, nel giro di qualche mese, questo temporaneo sconvolgimento giunge al termine, la vita riprende il suo regolare corso, e di tutte quelle faccende che per tre mesi hanno rappresentato la principale occupazione di molti di noi, generalmente non resta che poca, o nessuna traccia.
Una riflessione, questa, che negli ultimi giorni mi ha fatto ripensare ad una lettura di qualche anno fa, particolarmente in linea col periodo, dal titolo quanto mai evocativo: Estate.
A scriverlo, nel lontano 1917, fu Edith Wharton, celebre autrice statunitense nota, tra le altre cose, per esser stata la prima donna ad aggiudicarsi, nel 1921, il premio Pulitzer per il romanzo L'età dell'innocenza.
Con la Wharton, personalmente, ho da sempre un rapporto ambivalente: è una scrittrice che apprezzo e che leggo con piacere, ma con cui, per varie ragioni, di solito non riesco ad entrare completamente in sintonia. Non è infatti casuale che, tra le sue opere lette finora, le mie preferite siano proprio quelle che, discostandosi dai canoni abituali, lasciano da parte gli intrighi dell'alta società, per soffermarsi invece sulle piccole realtà di provincia del Massachussetts, e sulle disavventure - spesso tragiche - della gente comune.
Il romanzo di cui mi accingo a parlare rappresenta, appunto, una di queste eccezioni, a partire dall'inusuale ambientazione campestre che, a mio avviso, è uno dei suoi aspetti più belli.



La vividezza con cui Edith Wharton ritrae i colori e le sfumature dell'estate, e la sua abilità nel delineare l'intimo legame tra uomo e natura, sono degni di alcuni tra i più celebri lavori di Thomas Hardy; a fare da sfondo alla vicenda della giovane Charity, orfana dagli ignoti natali e pupilla di un rispettato avvocato, non è però il leggendario Wessex tante volte immortalato dal grande scrittore inglese, bensì la campagna del New England, e più precisamente il paesino di North Dormer: un incantevole scenario bucolico in totale antitesi coi raffinati salotti aristocratici su cui l'autrice è solita concentrarsi, ma non meno contaminato dai veleni del pregiudizio, del pettegolezzo e del falso perbenismo.
Bibliotecaria a tempo perso, ed amante delle immersioni nella pace inviolata del bosco, Charity, come le è stato detto fin da bambina, è originaria "della Montagna": una tetra altura sovrastante il villaggio, abitata da una comunità di rozzi individui ai margini della società civile; un luogo dimenticato da Dio, dove pochi oserebbero avventurarsi, in grado di suscitare nella ragazza un misto di fascino e repulsione.
La realtà monotona e puritana di North Dormer va stretta a Charity, che giorno dopo giorno fantastica di poter andare via e lasciarsi ogni cosa alle spalle.
“Si rendeva vagamente conto di essere cieca e insensibile a molte cose, ma ogni goccia del suo sangue reagiva d’istinto a tutto ciò che era luce e aria, profumo e colore. Amava la consistenza dell’erba secca sotto il palmo delle mani, l’odore del timo in cui aveva affondato la faccia, la brezza che le sfiorava i capelli e la camicetta di cotone, e faceva ondeggiare i larici, traendone sommessi scricchiolii.
Saliva spesso sulla collina dove restava distesa da sola, per il piacere di sentire il vento e di posare il viso nell’erba. Di solito in quei momenti non pensava a nulla, ma si limitava a lasciarsi sprofondare in una sorta di inarticolato benessere.”

Tutto però cambia quando, in un tranquillo pomeriggio di giugno, Charity s'imbatte inaspettatamente nel timido e serio Lucius Harney, un giovane architetto di Boston ospite presso un'anziana parente. Profondamente attratti l'uno dall'altra, i due iniziano a frequentarsi con assiduità destando le chiacchiere dei compaesani e il malcontento del signor Royall, l'ambiguo tutore di lei, che non vede di buon occhio la relazione.
Né la ragione, né il senso delle convenienze, però, potranno niente contro i sentimenti di Charity: in lei infatti convivono e si fronteggiano le due anime contrastanti di North Dormer: da un lato il rigido tradizionalismo del paese, dall'altro l'indomita selvatichezza della Montagna natale, quell'impulso ancestrale che la ragazza sceglierà pericolosamente di assecondare, abbandonandosi così ai propri istinti e svelandoci finalmente il significato profetico di quell'"Estate": metafora della sua stessa vita, ed allegoria di tutti i desideri, le aspettative e le promesse che l'inesorabile autunno vedrà appassire troppo presto, proprio come foglie secche deposte ai piedi di un albero ormai spoglio.

Edith Wharton (1862 - 1937)
Sebbene a prima vista, Estate possa sembrare solo l'ennesima variazione sul tema ricorrente della fallen woman, a muovere la penna tagliente e impietosa della Wharton non è il desiderio di far leva sulla coscienza sociale del lettore, ma piuttosto la volontà di mettere in luce tutta l'ipocrisia di una società che, non contenta di dominare le naturali inclinazioni dell'essere umano, s'illude di poterle addirittura annientare, e d'imbrigliare così la donna entro i rigidi canoni di una femminilità artificiale e idealizzata.
Fedele alla famosa regola dello "Show, don't tell", tanto cara al suo amico Henry James, la scrittrice si astiene dall'esprimere apertamente giudizi sui personaggi, e limitandosi ad illustrare fatti e azioni - talvolta adottando perfino i medesimi punti di vista che in realtà condanna - lascia al lettore il compito di trarre le proprie conclusioni.
Come da tradizione, nessuno è immune dalle stoccate di Edith Wharton: la stessa protagonista, una ragazza d'animo fondamentalmente buono, ma nel contempo sprezzante, indolente e vanitosa, si colloca tanto tra le vittime quanto tra i rappresentanti di quella comunità da cui si sente oppressa; non per questo si può evitare di dispiacersi per lei, esattamente come non si può fare a meno di biasimare il suo immeritevole amante. Se infatti, nel caso di Charity, lo spavaldo disdegno delle norme morali è essenzialmente espressione d'ingenuità ed ignoranza, per il colto Harney, del tutto consapevole dei propri obblighi e delle relative implicazioni, tale leggerezza è da ascriversi soltanto alla noncuranza, alla viltà, e agli intrinseci disvalori propri del mondo in cui è cresciuto: un mondo tacitamente regolato da quella doppia morale sessuale che condanna nella donna ciò che approva ed incoraggia nell'uomo; che propugna la virtù ma gode delle cadute altrui; che ostenta pietà per la fanciulla irreparabilmente perduta, ma punta il dito verso colei che, per ingegno o per fortuna, riesce a riconquistare la rispettabilità perduta e ad eludere così lo stigma sociale.
“North Dormer aveva in serbo tesori di indulgenza per chi veniva bollato a vita, ma solo derisione per chi accettava il compromesso.”

Anche in questo libro, la Wharton, regalandoci una narrazione lieve, inappuntabile e di grande fluidità, non lesina la sua inconfondibile ironia; si tratta però, stavolta, di un'ironia particolarmente sottile, che si esprime appieno in quel finale solo apparentemente lieto, in cui si cela in verità la resa al volere della "Società", con la negazione di sé e l'irrevocabile rinuncia ad ogni aspirazione.
D'altro canto, viene spontaneo domandarsi se davvero una conclusione diversa sarebbe stata più auspicabile. Dubbio, questo, che implica innanzitutto una doverosa riflessione sulle due figure maschili della storia: si può seriamente ritenere l'una migliore o peggiore dell'altra? L'uomo di mezza età, sempre in bilico tra la più perfetta integrità e il più deprecabile lassismo, è veramente più deplorevole del giovane moralista pronto ad indignarsi per i medesimi comportamenti che, spinto dalla convenienza e dal così detto senso del decoro, lui stesso non esita a mettere in pratica?
Probabilmente no, perché in fondo Harney e Royall non sono altro che due facce della stessa medaglia: entrambi espressione della medesima classe di uomini che nascondono i propri misfatti dietro una sfrontata facciata d'irreprensibilità; uomini il cui senso dell'onore si traduce nel rigoroso rispetto dei vincoli pubblicamente contratti, ma nel meschino disdegno di quei legami che, sebbene siano per loro stessa natura ancor più profondi e indissolubili, vengono stretti al riparo da sguardi indiscreti, e perciò non compromettono la reputazione.
“Gli aveva dato tutto quello che aveva, ma cosa era mai rispetto ai doni che la vita teneva in serbo per lui? Ora capiva cosa dovevano provare le ragazze che vivevano un’esperienza simile alla sua. Anch’esse davano tutto quello che avevano, ma non era sufficiente: al massimo poteva bastare per qualche attimo di felicità…”

C'è sempre un'amara attualità nei messaggi che Edith Wharton affida ai suoi romanzi, ed Estate non fa eccezione.
Certo, il mondo, in questi decenni  è profondamente cambiato; le leggi non scritte - ma in qualche modo sempre valide - della società hanno subito un lento ed inesorabile mutamento, ed è opinione comunemente accettata che, in linea di massima, una vicenda come quella di Charity non scandalizzi più nessuno.
Ciò nonostante, la realtà di ogni giorno non smette di offrirci esempi di situazioni difficili, errori, o azioni discutibili la cui responsabilità difficilmente può essere imputata ad una sola persona, ma dove tuttavia a reggere il peso del disonore e a sopportare le conseguenze, oggi come allora, è sempre e solo il più debole, donna o uomo che sia.

Commenti

  1. Ciao Alice, ho guardato da lontano Edith Wharton per anni e anni senza mai provare un forte desiderio di 'conoscerla'. Il perché non saprei proprio dirtelo. Qualche mese fa mi sono avvicinata per la prima volta a lei con 'Sorelle Bunner' e devo dire che l'ho trovato una lettura davvero appagante. Molto amara, questo sì, come dici giustamente tu, e anche molto moderna, per un risvolto che non avrei potuto immaginare. Personalmente, questo breve romanzo mi ha lasciato il desiderio di approfondirla, magari non subito, ma in futuro sicuramente. 'Estate' potrebbe essere il prossimo testo da leggere se, come dice Romina Angelici, ci sono delle assonanze con Ruth di Gaskell, che ho letto in un'edizione Penguin tanti anni fa e che ho amato alla follia! Elisabetta

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    1. Ciao Elisabetta. Come dicevo, con Edith Wharton ho un rapporto un po'complicato: se mi si chiedesse un parere spassionato non potrei che lodarla e riconoscerne lo straordinario talento, ma a livello personale devo ammettere di avere sempre qualche difficoltà ad entrare in sintonia con lei. Alludevo, nella recensione, alla mia preferenza per i suoi romanzi "atipici", vale a dire quelli ambientati in contesti insoliti rispetto ai più famosi, e focalizzati non sugli esponenti del bel mondo, ma sulla gente più semplice e di estrazione sociale meno elevata. Questi romanzi sono, appunto, Estate ed Ethan Frome (di cui ho intenzione di parlare prossimamente) che è sicuramente più tragico di Estate, ma a parer mio anche più bello.
      Ripeto, però: sono romanzi atipici, quindi io sicuramente te li consiglierei senza riserve, ma non sono sicura che siano i più adatti per chi volesse realmente approfondire la conoscenza dell'autrice, proprio perché non sono i più rappresentativi della sua narrativa.
      Detto ciò, credo che il paragone con Ruth di Elizabeth Gaskell meriti una precisazione, per evitare fraintendimenti (ed eventuali delusioni). L'assonanza, se di questo si può parlare, non riguarda né la trama, né l'intento delle autrici, né tantomeno la figura della protagonista: Ruth e Charity sono due figure non solo profondamente diverse tra loro, ma direi quasi antitetiche: una rappresenta in tutto e per tutto la classica donna angelicata della letteratura vittoriana, che viene indotta  a peccare senza averne effettiva responsabilità, che soffre quando prende coscienza dei proprie errori, e dedica il resto della sua esistenza ad espiare le proprie colpe; l'altra, è invece una donna irrequieta, a tratti sprezzante, che si lascia guidare dalle passioni, non prova sensi di colpa per ciò che fa, ma una volta che è chiamata ad affrontarne le conseguenze, ne ha paura e tenta (comprensibilmente) di trovare una via di salvezza. Anche la sorte cui vanno incontro è di segno opposto, sebbene in entrambi i casi implichi una rinuncia e, in un certo senso, una resa alla legge sociale.
      Le analogie tra i due romanzi riguardano piuttosto il modo in cui la società in sé reagisce dinanzi alla caduta delle due ragazze: il disprezzo che le colpisce, l'atteggiamento ipocrita dei ben pensanti, l'inappellabile condanna che, guarda caso, non riguarda invece i loro ben più deplorevoli amanti... Certamente, come dicevo a Romina, la cosa che colpisce, nel confronto tra le due figure, è proprio il fatto che entro la categoria delle così dette "fallen women", vengano a trovarsi tipologie di donne diversissime tra loro e con storie personali differenti. In Estate è la stessa Charity a riflettere su come, inaspettatamente, proprio lei che ha un carattere così distante da quello della maggior parte delle ragazze che conosce, si sia trovata alla fine nella stessa posizione di tante altre sventurate che lei per prima aveva in passato giudicato sciocche.

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    2. Perfetto! In effetti, non avevo visto la tua risposta su instagram, dove già spiegavi un po' anche le dissonanze tra i due testi. Sei stata chiarissima ed esaustiva, come sempre. Immagino che non amerei molto Charity, per come me la descrivi, mentre ho provato tanta simpatia e compassione per la dolcissima Ruth. Non preoccuparti... Non mi aspetto di trovare una seconda Gaskell; per me è un'autrice unica, e si contende il primo posto nel mio cuore soltanto con pochissimi intoccabili. Per istinto, anche io propendo più per le storie che riguardano la povera gente e non il 'bel mondo', quindi non mi stupirei di pensarla come te su Wharton. Spesso i libri più famosi dei grandi autori non sono quelli che amo di più. Aspetto allora la tua recensione su Ethan Frome e poi deciderò a quale dei due dedicarmi. Grazie mille! Elisabetta

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    3. Grazie a te, Elisabetta!
      Guarda, in realtà, uno degli aspetti che mi sono piaciuti di più di Estate è proprio il fatto che, sebbene Charity non risulti a prima vista particolarmente amabile, in fondo è comunque impossibile non provare compassione per lei.
      Ti dirò, personalmente ho preferito questo romanzo a Ruth per molte ragioni, ma una delle principali è proprio il maggior realismo con cui viene presentata la figura della fallen woman.
      Mi spiego: Ruth Hilton è sicuramente un personaggio con cui è facile simpatizzare, ma è anche una fallen woman sui generis, nel senso che, al di là di come viene percepita dalla società dell'epoca, di fatto non la si può considerare realmente una ‘donna perduta’ dal momento che quando ‘cade’ non è per via della sua debolezza, ma semplicemente perché non sa che ciò che sta facendo costituisce un peccato. Ruth è quindi soltanto una vittima inconsapevole, senza alcuna colpa, e pertanto è completamente impossibile non provare pena per lei o non scandalizzarsi per l'irragionevole durezza con cui viene trattata.
      Nella realtà, però, era certamente molto più comune incontrare ragazze come Charity, che peccavano non per ignoranza del male, ma semplicemente perché umane e come tali provviste di debolezze, passioni, desideri... Il bello di un romanzo come Estate, a mio avviso, è che permette di andare oltre l'istintivo disdegno che a volte certe figure ispirano, e spinge il lettore a comprendere le ragioni alla base del loro comportamento e, di conseguenza, sia pur senza approvarle, di empatizzare (almeno in parte) con loro.
      Quanto alla possibilità di trovare una nuova Gaskell, credo che con la Wharton tu non corra sicuramente rischi in tal senso: onestamente non mi vengono in mente due autrici dell'epoca più diverse, sia come stile che come mentalità.

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    4. Ciao Alice, tanta era la curiosità che hai saputo suscitarmi, che ho deciso di leggere Ethan Frome in questi giorni di vacanza. Che si trattava di un romanzo straziante lo avevo capito, ma forse non fino a questo punto. Comunque, ci sono andata preparata e quindi ho retto bene il colpo. A questo punto sono curiosa di leggere la tua recensione. Sicuramente non ho visto nessuna analogia con Cime Tempestose, come invece avevo letto da qualche parte, ma un po' del pessimismo di Hardy sì, non ultimo lo sfondo onnipresente della natura aspra e crudele; l'aspetto forse più bello. Il finale... il più triste immaginabile. Persino peggiore di quello che avevo supposto. Libro bello ma non memorabile, forse per 'colpa' anche di una traduzione che non distingue tra passato e presente, usando sempre lo stesso tempo verbale. Una cosa che, purtroppo, accade di frequente e che manda il lettore in confusione. Pur tacendo sulla mia edizione, per una questione di rispetto, sono curiosa di sapere quale versione hai letto tu. A presto! Elisabetta

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    5. Ciao Elisabetta, e innanzitutto perdona l'inverosimile ritardo con cui ti rispondo: purtroppo, nelle scorse settimane, non mi è stato proprio possibile dedicarmi al blog.
      Ma andiamo dritti al punto. Mi fa davvero piacere averti invogliata a leggere Ethan Frome! Comprendo bene il tuo sconcerto: è un libro tanto breve quanto duro, dolorosissimo, che come hai detto tu, culmina in un finale perfino peggiore di quello che ci si potrebbe attendere.
      Ti confesso che è la prima volta che mi capita di sentirlo paragonare a Cime tempestose, e onestamente, al di là della particolare circostanza in cui il viaggiatore/narratore viene a conocenza della storia (per certi versi, al pari di Mr Lockwood) non mi viene in mente nessun’altra analogia tra i due romanzi.
      Concordo a proposito delle atmosfere: anche per me rappresentano la parte più affascinante del libro; quanto al considerarlo o meno un'opera memorabile... No, neanch'io mi sentirei di definirlo tale, ma del resto qui entriamo in un ambito talmente legato alla sensibilità individuale, che credo non esistano libri che possano essere definiti propriamente "memorabili" in senso assoluto.
      Sulla traduzione - devo essere sincera - non so risponderti: l'ho letto parecchi anni fa in una vecchia edizione fuori commercio (che tra l'altro non ho più a disposizione) che francamente non saprei dirti. Personalmente, però, non ricordo di aver rilevato il problema cui alludi.
      Ad ogni modo, qualche tempo fa, mi sono procurata la nuova edizione Neri Pozza, che conto di rileggere molto presto. Non ho avuto ancora occasione di valutarla, ma spero vivamente che la traduzione sia dignitosa!! :)

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  2. Figurati, Alice. Abbiamo così tanti impegni, tra famiglia e lavoro... È il motivo per cui non mi sono mai decisa a creare un blog; non avrei il tempo di curarlo a dovere. Grazie per i preziosi consigli, sempre ampiamente motivati. A presto e buone letture! Elisabetta

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