Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Grazia Deledda: La madre

La prima volta che ho sentito parlare di Grazia Deledda non è stato per i suoi meriti letterari. Avrò avuto circa otto o nove anni, e mentre mi divertivo a tracciare percorsi immaginari nello stradario della mia città (si trattava, all'epoca, di un fascicolo recapitato a casa insieme all'elenco telefonico o alle pagine gialle), mi sono imbattuta in una via che portava il suo nome. Per vari motivi, le vie intitolate alle figure femminili mi hanno sempre incuriosita. Capitava spesso di vedere strade dedicate a politici, patrioti, letterati o esponenti del clero, ma erano quasi sempre uomini; le donne, invece, erano generalmente più rare. Così, ogniqualvolta ne scoprivo una, iniziavo a fantasticare e a formulare fantasiose congetture sull'identità della signora in questione e sulle ragioni che avevano spinto qualcuno a dare il suo nome ad una via...
Da quel primo fugace incontro sono trascorsi molti anni prima che la Grazia scrittrice facesse realmente capolino nella mia vita. A scuola, per qualche ragione a me tutt'ora incomprensibile, della Deledda non si è mai parlato, se non rapidamente ed in relazione ad autori assai più incensati quali Verga e Zola. Ovviamente, al liceo, tutti sapevamo chi fosse Grazia Deledda: eravamo consapevoli che avesse vinto un Nobel per la letteratura, e probabilmente, se interrogati, molti di noi sarebbero stati anche in grado di snocciolare i titoli di due o tre dei suoi romanzi (!) Ma, a parte questo, cos'altro avremmo saputo dire di lei? Della sua formazione da autodidatta, della sua lungimiranza, della sorprendente attualità del suo pensiero, o del suo successo presso il pubblico straniero, cosa sapevamo? Assolutamente niente.
Negli anni, i miei interessi - ed anche una certa diffidenza risalente ai tempi della scuola - mi hanno portata lontano dall'universo della letteratura italiana, fino a quando, qualche Natale fa, il caso ha voluto farmi incontrare di nuovo Grazia Deledda.
A conquistarmi, in particolare, sono stati la sua insospettabile modernità, e soprattutto il suo coraggio nell'affrontare tematiche scomode e delicate: aspetti, questi, di cui troviamo una straordinaria testimonianza ne La madre: breve romanzo - di cui ora vi parlerò - del 1920, la cui prima edizione in lingua inglese potè contare, tra l'altro, sulla prefazione di D.H. Lawrence, che di Grazia era un grandissimo estimatore.

Fragile come l'animo umano trascinato dalle passioni, e aspra come la terra della Sardegna sferzata dal vento: così ci appare la trama di questo romanzo; così percepiamo la vita che scorre tra le pagine, in quell'alternarsi di tormenti, dubbi, effimere speranze, dove le uniche certezze, amare e imperiture, sono la debolezza dell'uomo di fronte alla tentazione, e l'ineluttabilità del suo destino di lotta e sofferenza.
La storia è quella di Paulo, giovane parroco del fittizio paese di Aar, benvoluto dalla gente del posto e venerato dalla devota madre, che avvinto dall'amore per la ricca Agnese, smarrisce la propria strada precipitando nel vortice del peccato e della menzogna, in cui ogni precedente convinzione perde in un istante la sua ragion d'essere, e la coscienza, dilaniata dal rimorso e dal desiderio, si trasforma nella principale nemica di se stessa.

Ed ecco d'un tratto la vita terrena gli era riapparsa negli occhi di una donna: ed egli in principio s'era talmente ingannato da scambiarla con la vita eterna.
Amare, essere amato; non era questo il regno di Dio sulla terra? E il suo petto si gonfiava ancora al ricordo. Perché tutto questo, o Signore? perché tanta cecità? Dove cercare la luce? Era ignorante; e sapeva di esserlo; la sua coltura era fatta di frammenti di libri dei quali non intendeva intero lo spirito: la Bibbia soprattutto lo aveva plasmato col suo romanticismo e il suo verismo d'altri tempi: quindi non si fidava neppure di se stesso, delle sue ricerche interiori: sapeva di non conoscersi, di non essere padrone di sé stesso; d'ingannarsi, d'ingannarsi sempre.
Gli avevano fatto sbagliare strada. Era l'uomo degli istinti lui, come i suoi padri mugnai o pastori; e poiché non poteva abbandonarsi all'istinto soffriva. Ecco che ritornava alla prima diagnosi del suo male, alla più semplice e giusta: soffriva perché era uomo, perché aveva bisogno della donna, del piacere, di generare altri esseri: soffriva perché lo scopo naturale della vita è di proseguire la vita, e a lui lo impedivano; e questo impedimento aumentava lo stimolo del suo bisogno.

È una Sardegna rustica imbevuta di religiosità e superstizione, il teatro di questa dolorosa vicenda: un paesaggio brullo, dominato da tradizioni e credenze arcaiche, ma soprattutto una realtà chiusa in cui i sentimenti umani, troppo a lungo soffocati dagli obblighi sociali e dall'ignoranza, deflagrano rovinosamente lacerando il cuore e straziando l'anima.
Il devastante conflitto interiore del protagonista, combattuto tra il senso del dovere e le necessità del cuore, si consuma in poco più di ventiquattr'ore, ma diviene il cruciale punto di non ritorno nella vita di Paulo, della sua infelice amante e, soprattutto, di sua madre.
E infatti, come da titolo, il vero cardine di questa storia è lei, Maria Maddalena: una donna che non ha mai compiuto un'azione malvagia; che spinta dalle sgradevoli attenzioni di uno zio già anziano, ha rinunciato alla sua giovinezza per diventarne la sposa; che ha annullato se stessa nel lavoro di serva, per garantire un futuro a suo figlio, e che ora, ormai stanca e anziana, si trova inerme di fronte al dramma di quello stesso figlio: suo unico orgoglio, sua unica speranza, sola gioia in un'esistenza di sacrifici, ora pericolosamente in bilico sul ciglio del burrone, diviso tra la lotta per restare in equilibrio, e lo spasmodico impulso di lasciarsi andare.

Gli ontani in fila davanti al parapetto della piazza della chiesa, si sbattevano furiosi al vento, neri e sconvolti come mostri; al loro fruscìo rispondeva il lamento dei pioppi e dei canneti della valle: e a tutto quel dolore notturno, all'ansito del vento e al naufragare della luna fra le nuvole, si confondeva l'angoscia agitata della madre che inseguiva il figlio.
Fino a quel momento ella s'era illusa nella speranza di vederlo scendere al paesetto per visitare qualche malato: eccolo invece che correva come trasportato dal diavolo verso la casa antica sotto il ciglione.

Quanta pena si scorge nei pensieri di questa madre, nei suoi stanchi passi nel buio della notte, mentre la vita intera le scorre dinanzi, e l'incertezza, ancora venata dall'illusione, tinge dei suoi colori l'ambiente circostante, concretizzandosi poi in un'unica ingenua e sofferta domanda: perché? Perché ad ogni uomo è concesso di amare, e al suo Paulo no?
E un po'ingenua, probabilmente, è anche la sorpresa di noi lettori del ventunesimo secolo, nel veder affrontata con tale sensibilità e schiettezza, tra le pagine di un romanzo come questo, l'annosa questione del celibato ecclesiastico.
Ma la Deledda, prima donna italiana a conquistare il Premio Nobel, nel 1926, stupisce non solo per i contenuti, ma anche per la sua prosa: nitida, fluida, così insolitamente moderna rispetto allo stile della maggior parte degli autori nostrani a lei contemporanei; una scrittura nel contempo sobria ed evocativa, attraverso cui l'intreccio, di per sé assai esile, prende vita sotto ai nostri occhi, rendendoci tangibile il tumulto interiore dei personaggi, mentre fuori, tra le terre impervie inghiottite dalle tenebre, il vento incessante e carico di presagi - leitmotiv della narrazione - assume i connotati sinistri ora del giudice, ora della tentazione, ora infine della colpa stessa svelata e gridata al mondo.

Egli andava avanti, su per l'erta del suo calvario: un po' di sangue gli rifluiva al cuore, i nervi gli si rallentavano; ma era tutto un disperato abbandono al pericolo, il distendersi del naufrago che non ha più forza di lottare contro le onde.
Volgendosi verso i fedeli non chiuse più gli occhi.
“Il Signore sia con voi.”...
Ed egli mosse il libro e riprese le sue orazioni e i suoi gesti lenti: e quasi un senso di tenerezza lo vinceva, nella sua disperazione, pensando che Agnese lo accompagnava al suo calvario come Maria Gesù: che sarebbe fra pochi istanti salita sull'altare, che si sarebbero incontrati ancora una volta, in cima al loro errore, per espiare assieme come avevano peccato assieme.
Come poteva odiarla se ella portava con sé il suo castigo, se l'odio di lei era ancora amore?


Grazia Deledda (1871 - 1936)
Non c'è particolare originalità nella vicenda narrata: le tematiche del peccato, dell'espiazione, delle convenzioni sociali, talvolta più forti e determinanti della coscienza stessa, sono fin dall'Ottocento archetipi classici della letteratura; in questo caso, però, a colpire il lettore è soprattutto la delicatezza della Deledda unita a quella singolare lucidità con cui ella esplora i tormenti e le complessità della psicologia umana, regalandoci un'opera suggestiva e carica di simbolismi - indimenticabile l'immagine della veste talare abbandonata sul pavimento, a rappresentare la caduta di colui che la indossa - dove il labile confine tra fede e superstizione, da sempre radicato nelle piccole comunità rurali, emerge in tutta la sua portata.
È certo un testo cupo, sofferto, quello concepito dall'autrice, ma è anzitutto un testo in cui il dramma individuale, tanto insignificante per il resto della gente quanto insostenibile per chi lo vive in prima persona, diviene protagonista assoluto. Nelle ultime pagine, non a caso, assistiamo ad un crescendo di tensione, fino al parossismo, fino all'estremo compimento, fino alla liberazione per chi se ne va, e al rimorso inguaribile e incancellabile, per chi resta.
Il giudizio morale, ancora una volta, viene lasciato alla sensibilità individuale e alle convinzioni di ciascuno; sulle pagine, caustica e traboccante di significato, resta l'ultima scena di due sguardi che s'incrociano, e il dolore muto e logorante di due anime spezzate.

Il viso era fermo e duro, gli occhi socchiusi, i denti ancora stretti nello sforzo di non gridare.
Egli intese subito ch'ella era morta della stessa pena, dello stesso terrore che egli aveva potuto superare.
E anche lui strinse i denti per non gridare, quando sollevò gli occhi e nella nuvola confusa della
folla che gli si accumulava attorno incontrò gli occhi di Agnese.

Commenti

  1. Ciao Alice! Che bello sentir parlare di Grazia Deledda! Anche io ho un rapporto molto conflittuale con lei, nel senso che la amo ma la temo. Il suo punto di forza, oltre alle tematiche scomode e coraggiose per l'epoca, come dici giustamente tu, a mio avviso è lo stile di scrittura. Non a caso è stata spesso accostata a uno dei miei idoli letterari, Verga. La penna di Deledda è indimenticabile; graffiante, passionale, talvolta spietata e, soprattutto, priva di ogni artificio. Scrittura intesa come uno sgorgare diretto di sentimenti, io almeno la avverto così. Un dono innato, insomma, e assai raro. Personalmente la ritengo una delle più grandi della nostra letteratura, ma la leggo poco perché mi angoscia. L'ultimo suo romanzo che ho letto è stato proprio 'La madre' e mi è piaciuto tantissimo. Il primo, per adesso il più bello e il più famoso, Canne al vento e il più terribile sicuramente 'L'edera'; un testo di indubbio valore, ma che mi lasciò davvero l'amaro in bocca. Peccato per questa sua tragicità davvero angosciante, che di certo non invoglia il lettore a immergersi nelle sue splendide opere. E se lo dico io, che sono una sua grande estimatrice... Elisabetta

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    1. Ciao Elisabetta, è sempre un piacere leggere le tue riflessioni così traboccanti di passione ed entusiasmo. Ricordo bene il tuo amore per la Deledda, e concordo pienamente con te sulla sua scrittura.
      Sicuramente è un'autrice da prendere a piccole dosi: può risultare effettivamente molto faticosa sul piano emotivo, e infatti, un po' come per Hardy (che però, a mio avviso, nella sua tragicità riesce, paradossalmente, ad essere anche insospettabilmente divertente... almeno in alcuni casi) occorre affrontarla solo quando ci si sente davvero ben disposti.
      Tuttavia, va ricordato che esistono anche delle piacevoli - e meno note - eccezioni: mi riferisco alla sua raccolta Il dono di Natale (in realtà del Natale si parla solo in un paio di occasioni) che comprende racconti, aneddoti e storielle varie permeate da un'insolita tenerezza e da una gradevolissima ironia. Certo, non si tratta dei suoi maggiori capolavori, ma a me è piaciuto molto leggerli perché offrono un bellissimo spaccato sulla vita e le tradizioni della Sardegna di un tempo, e fanno anche sorridere. Ricordo un racconto, in particolare, intitolato La fanciulla di Ottana che è una specie di rilettura sarda della fiaba di Biancaneve.

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    2. Che bello! Non sapevo che Deledda avesse scritto questi racconti. L'idea di leggerla in una veste meno tragica mi incuriosisce un bel po'. Adoro il suo modo di scrivere e mi spiace di tenerla così 'a distanza'. I libri nostalgici e malinconici, per natura, mi piacciono moltissimo ma lei, davvero, supera la mia soglia di tolleranza. Per riprendermi, devo sempre ripiegare su qualcuno dei soliti autori, che rappresentano la mia comfort zone... Elisabetta

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