Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Quando il capolavoro delude.
Anna Karenina di Lev Tolstoj

A
ccade prima o poi, nella vita di ogni lettore, di imbattersi in qualche grossa delusione: una lettura da cui ci si attendeva molto, e che invece, inaspettatamente, lascia del tutto insoddisfatti. Può succedere, è normale, e così ci si separa dal libro senza rimpianti, semplicemente sperando che la prossima scelta si riveli più felice. Quando però il libro in questione è un grande classico, uno di quei romanzi universalmente considerati degli intoccabili capolavori della letteratura, allora la delusione si fa particolarmente acuta, e il senso di malcontento che ne consegue diventa molto più difficile da mandar giù.
Così, in breve, si può riassumere la mia personale esperienza con Anna Karenina, monumentale opera di Lev Tolstoj costata al suo autore anni di lavoro, più volte trasposta sullo schermo, e tutt'ora annoverata tra gli indiscussi capisaldi della letteratura d'ogni tempo.

“Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.”

Introdotto da questo celebre incipit, ancora oggi ricordato e citato in molteplici occasioni, il romanzo si basa su una trama piuttosto semplice e, probabilmente, già nota ai piu.
Anna, sposata col funzionario governativo Aleksèj Aleksàndrovič Karenin, e madre amorevole del piccolo Serëža, si reca a Mosca per aiutare il fratello Stiva a riappacificarsi con la moglie Dolly, che ne ha da poco scoperto l'infedeltà. Qui, fa la conoscenza di Kitty, sorella minore di Dolly, e del conte Vronskij, un avvenente ufficiale di cui la ragazza è innamorata. Sperando in una dichiarazione da parte del conte, Kitty rifiuta, non senza esitazioni, la proposta di matrimonio dello schivo Konstantin Levin, proprietario terriero e, da anni, buon amico di famiglia.
Pochi giorni dopo, però, a un ballo, Kitty si accorge con sgomento dell'evidente attrazione tra Anna e Vronskij. Afflitta dai sensi di colpa, e spaventata di fronte ai propri sentimenti, Anna torna immediatamente a casa, decisa a lasciarsi tutto alle spalle; ma l'istinto avrà infine la meglio sulla ragione, e malgrado i tentativi per resistere, la giovane donna si lascerà sopraffare, decretando inesorabilmente la propria condanna.
Intanto, nel bel mezzo della sua campagna, Levin, ancora sofferente per il rifiuto di Kitty, si dedica anima e corpo al lavoro, nella speranza di realizzare i propri obiettivi e, soprattutto, di dare un senso alla propria esistenza.

La prima impressione che si avverte, immergendosi tra le pagine di questo imponente romanzo, è quella di una lettura tutt'altro che difficoltosa: la scrittura di Tolstoj è nitida, lineare, d'impronta marcatamente realista; si lascia leggere, insomma, senza alcuna fatica.
Eppure, nel corso delle oltre ottocento pagine di cui il volume si compone, la fatica è stata una delle sensazioni che ho provato più di frequente. Fatica dovuta non alla storia raccontata, bensì alla narrazione vera e propria di Tolstoj; al suo stile preciso ma spesso monotono e ripetitivo; alle interminabili digressioni che l'autore introduce nel bel mezzo del racconto, dando vita, di quando in quando, ad autentici trattati di agricoltura e politica, che, volendo, si potrebbero tranquillamente tralasciare senza per questo perdere un solo elemento utile alla comprensione del romanzo.
Tolstoj, diversamente da altri autori del tempo come Charles Dickens o George Eliot, non si serve di alcun espediente letterario per integrare nella narrazione le sue lunghe dissertazioni e catturare così l'interesse del lettore, ma preferisce esporre tematiche e ideologie in modo tanto accurato quanto asettico, quasi a voler soddisfare essenzialmente un'esigenza personale.
Il risultato è che le numerose divagazioni di cui il testo è pregno, più che ad un approfondimento sui temi delle vicende narrate, somigliano ad un esaustivo compendio degli interessi e delle competenze di Tolstoj: tanto utile per conoscere la Russia dell'Ottocento ed apprezzare lo spessore culturale dell'autore, quanto superfluo, nonché talvolta fuori luogo, nell'ambito di un romanzo da cui, come lettrice, mi sarei onestamente aspettata qualcosa di diverso.
Questa propensione a soffermarsi con tale precisione sui dettagli, inoltre, mal si accorda con la scelta narrativa dello scrittore che, dopo essersi ripetutamente addentrato nelle meticolose descrizioni del lavoro agricolo; aver illustrato passo per passo l'intero rito nuziale ortodosso; aver raccontato con estrema scrupolosità le elezioni del governatorato, ed aver dedicato la bellezza di sei capitoli ad una battuta di caccia (nel corso della quale - ciliegina sulla torta - egli si avventura addirittura nell'analisi delle riflessioni... del cane!), lascia interamente all'immaginazione del lettore alcuni dei momenti cruciali della trama, omettendo collegamenti significativi tra le varie parti del romanzo, e suscitando spesso una spiacevole sensazione di incompiutezza.
Lev Nikolàevič Tolstoj

Indiscusso conoscitore della natura umana, Tolstoj, senza dubbio, dà il meglio di sè nell'analisi dei più profondi recessi dell'animo dei personaggi, portandone alla luce, con particolare penetrazione, tutte le fragilità e i tormenti.
E tormentati, in questo romanzo, lo sono un po' tutti: dalla protagonista eponima (che poi, a ben guardare, così protagonista non è), lacerata tra passione e senso del dovere, al suo infelice amante, che rinuncia ad una brillante carriera militare per trovarsi imprigionato (e tanto peggio per lui!) in un'opprimente gabbia di gelosia e isterismo; dall'insoddisfatto Levin, perennemente in cerca del senso della vita, alla sofferente Dolly, una figura, quest'ultima, ancora oggi tristemente attuale nel suo ruolo di donna ingannata, disposta - o piuttosto, moralmente obbligata - a sopportare in silenzio i tradimenti e la falsità di un marito superficiale e indolente, e ad annullare completamente la propria personalità nel ruolo di moglie e madre.

Eppure, a dispetto della sua lodevole abilità introspettiva, Tolstoj è riuscito a trasmettermi ben poco; mi è risultato impossibile affezionarmi ad alcun personaggio, ed anzi, l'indifferenza provata verso molti di loro, in qualche caso, ha perfino ceduto il passo ad una cordiale antipatia.

Vivien Leigh nel ruolo di Anna, dal film del 1948 di Julien Duvivier
Avevo tanto sentito parlare della "meravigliosa" Anna Karenina come di un personaggio femminile tra i più affascinanti della letteratura, con tutta la sua passionalità, la sua voglia di vivere, l'incapacità di accettare compromessi, e il bisogno viscerale di amare e di essere amata... L'avevo immaginata come una donna sola, incompresa, troppo vera, e quindi fuori posto, in un mondo retto dal falso perbenismo e fondato sulle apparenze.
Ebbene, quel che mi sono trovata di fronte, leggendo il romanzo di Tolstoj, non avrebbe potuto essere più diverso.
Perché comunque la si voglia mettere, Anna non è una povera vittima intrappolata suo malgrado in un matrimonio di facciata, né tantomeno una donna disprezzata, costretta a vivere in un ambiente ostile, o a conformarsi a delle regole che non le appartengono: colta, raffinata, apparentemente piena di buon senso, e riconosciuta da tutti come una moglie esemplare e una madre modello, ella gode del rispetto e dell'ammirazione di quanti la conoscono, e fino al momento in cui s'imbatte in Vronskij, conduce una vita familiare all'insegna della serenità e della più perfetta armonia.
Personalmente, tutto ciò che ho visto di bello (sempre ammesso che questo sia l'aggettivo corretto) nella figura di Anna, non risiede affatto nel personaggio in quanto tale, ma piuttosto nella caratterizzazione che ne fa Tolstoj, vale a dire nell'ammirevole capacità di raccontarci il suo mondo interiore, delineandone sfumature ed infinite contraddizioni: aspetti, questi, che nel bene e nel male, la rendono straordinariamente umana.
Ed è questo il punto: nel bene e nel male. Perché la Karenina, purtroppo, dell'umanità incarna proprio alcuni tra i lati più detestabili: l'egoismo, la codardia, l'opportunismo, la sconsideratezza, la gelosia, la vanità...
Anna, personificazione stessa della - ahimè - tanto decantata quanto fallace massima "al cuore non si comanda", sceglie la passione, e rinuncia a tutto ciò che possiede per seguire l'uomo di cui si è invaghita a dispetto delle convenienze e della morale. Anna sceglie, certo, e poco importa che ciò significhi distruggere la propria famiglia, ferire un uomo che la ama sinceramente, e soprattutto abbandonare il figlioletto da cui, all'inizio della storia, ella non sopportava di separarsi nemmeno per un giorno. Anna sceglie e muore per la sua scelta, non perché la società, per quanto corrotta e ipocrita sia (e il bel mondo russo lo è veramente, ma veramente tanto!), non le conceda di vivere, ma perché lei per prima risulta incapace di affrontare la vita: lo dimostra nel momento in cui inizia la sua relazione con Vronskij; nell'istante in cui fugge dalle responsabilità illudendosi di poter condurre un'esistenza puramente romantica, come le eroine dei suoi romanzi preferiti; lo conferma poi, quando, scontrandosi con la realtà della propria situazione, non riesce ad accontentarsi di ciò che ha, ed incolpa gli altri per qualcosa di cui lei sola è responsabile, trovando infine l'unica via d'uscita nella morte.
La felicità è un'irraggiungibile chimera per Anna Karenina, e tale è destinata a restare, perché ciò a cui ella anela e per cui si rode l'anima non è l'amore di un uomo - il rapporto con Vronskij ha ben poco a che fare con l'amore, si tratta se mai di ossessione e di mera attrazione fisica - bensì una continua conferma di sé, che non potendo trovare nel proprio animo inquieto, ella cercherà morbosamente negli altri, ma invano.
Non c'è proprio niente di ammirevole nelle scelte di questa giovane donna, niente che mi abbia permesso di apprezzarla o di parteggiare per lei. Ho inizialmente provato pena per Anna, per la sua infelicità, per il suo terrore di fronte alla consapevolezza delle proprie azioni, e la contemporanea incapacità di porvi rimedio... Ma la compassione, a un certo punto, ha lasciato spazio all'irritazione, e infine al biasimo.
Anna soffre per i propri sbagli, è vero, ma quando, malgrado tutto, le viene concessa una seconda possibilità, lei - che credendosi, poco prima, in punto di morte, si era convenientemente pentita e aveva implorato perdono (salvo tornare poi sui suoi passi non appena scongiurato il pericolo) - vi rinuncia, consegnandosi irrevocabilmente alla rovina, perché, come dirà il suo stesso consorte:

“Si può salvare una persona che non vuole perire; ma se una natura è talmente corrotta, che la rovina stessa le sembra una salvezza, che cosa fare?”

E proprio Aleksèj Aleksàndrovič, a sorpresa, si è rivelato il personaggio con cui mi è riuscito più facile simpatizzare. Lo conosciamo come un uomo tutto d'un pezzo, un marito devoto ma introverso, a tratti goffo, incapace di esprimere i propri sentimenti, e gravato, nel contempo, da un'insolita debolezza di fronte alle lacrime altrui. Assistiamo alle sue lunghe camminate avanti e indietro per la stanza, tormentato dai dubbi; siamo testimoni delle sue difficoltà di fronte all'invalicabile muro creatosi tra lui e la moglie; lo vediamo preda di un dolore muto e inconfessabile, aggrapparsi ciecamente ai suoi princìpi, quando le sue più intime paure trovano conferma nel modo più brutale... e lo vediamo, poi, in una delle scene più intense del romanzo, dare finalmente sfogo alle emozioni, al capezzale di quella moglie infedele a cui ha sempre voluto bene per abitudine e convenzione, e per la quale, proprio nel momento in cui la società gli darebbe ragione, egli non esita a calpestare orgoglio e convenzioni d'ogni sorta, scoprendo per la prima volta nel suo cuore il vero significato dell'amore.

“Lo sconvolgimento dell’animo di Aleksèj Aleksàndrovič aumentava sempre più, ed era giunto ora a tal punto che egli aveva già cessato di lottare contro di esso; a un tratto sentì che ciò che riteneva uno sconvolgimento dell’animo era invece uno stato d’animo di beatitudine che a un tratto gli aveva data una nuova e mai provata felicità. Non pensava che la legge cristiana, che in tutta la propria vita aveva voluto seguire, gli prescriveva di perdonare e di amare i suoi nemici; ma un sentimento gioioso d’amore e di perdono verso i nemici riempiva la sua anima. Stava in ginocchio e, poggiata la testa sulla giuntura del braccio di lei che lo scottava come fuoco attraverso la camicia, singhiozzava come un bambino. (...)
«L'ho vista e ho perdonato. E la felicità del perdono mi ha rivelato il mio dovere...
Voi potete calpestarmi nel fango, fare di me lo zimbello del mondo, io non l'abbandonerò e non vi dirò mai una parola di rimprovero.
Il mio dovere per me è chiaramente tracciato: devo essere con lei e ci sarò.»”

Nonostante tutti i suoi punti deboli e i suoi momenti bui, Aleksèj Aleksàndrovič è un uomo profondamente integro e solido, il solo esempio di autentica onestà in mezzo all'ipocrisia e allo sterile perbenismo dell'aristocrazia russa; un uomo che, con i suoi difetti e il suo travagliato percorso interiore, è riuscito, a differenza della maggior parte degli altri personaggi, a regalarci qualche momento realmente toccante.

Altra figura di notevole spessore - nonché, malgrado il titolo fuorviante, vero perno centrale del romanzo - è quella di Konstantin Levin, una sorta di alter ego di Tolstoj in cui è facile rintracciare diversi elementi autobiografici relativi allo stesso autore (su tutti, la discutibile scelta di sottoporre alla futura sposa il resoconto esplicito e dettagliato delle proprie passate esperienze amorose).
Il personaggio di Levin funge da contraltare a quello di Anna; le loro vite procedono su binari paralleli, ma in direzioni opposte: l'una passa dalla morigeratezza al peccato, e ne soccombe; l'altro, dopo aver sperimentato la colpa, ritrova se stesso e la gioia di vivere votandosi ad un'esistenza all'insegna del lavoro e della semplicità.
Con Levin ho certamente condiviso il disgusto nei confronti dell'alta società pietroburghese e moscovita (tra cui i suoi stessi congiunti), ma per quanto ne abbia apprezzato la genuinità, la caratura psicologica, e l'evoluzione morale, devo ammettere che, purtroppo, le sue vicende personali non sono riuscite a coinvolgermi come avrei sperato, neppure quando Tolstoj, rifacendosi al David Copperfield di Dickens - suo romanzo prediletto, e in tutta probabilità, unico punto di convergenza tra me e lui- si sofferma sulle traversie coniugali del protagonista, abbandonandosi ad una serie di riflessioni che, considerata l'età e l'esperienza di Konstantin, mi sono parse in alcuni frangenti un po' troppo ingenue.
Una nota a parte meritano invece i bei capitoli incentrati sul parto di Kitty, efficacemente raccontati attraverso lo sguardo stranito di un Konstantin spaventato e incredulo, che nel suo candido stupore, intenerisce e riesce a strappare più di un sorriso.

“Sapeva e sentiva soltanto che quel che si compiva era simile a quel che si era compiuto un anno prima nell'albergo della città di provincia sul letto di morte di suo fratello. Ma quello era un dolore; questa era una gioia. E tuttavia quel dolore come questa gioia erano egualmente al di fuori di tutte le consuete circostanze della vita, in questa solita vita erano come spiragli attraverso i quali si faceva vedere qualcosa di più alto.
E quel che si compiva avanzava con eguale pena, con tormento; e, in modo egualmente inaccessibile, nella contemplazione di questa cosa più alta, l'anima si sollevava a un'altezza che prima essa non aveva mai compreso e dove ormai il raziocinio non poteva tenerle dietro.”

Alicia Vikander (Kitty) e Domhnall Gleeson (Levin) in "Anna Karenina" di Joe Wright, 2012
Purtroppo, proprio nelle parti del romanzo dedicate alla vita domestica, emerge un lato di Tolstoj che, per quanto mi riguarda, rappresenta uno dei suoi principali limiti: la mentalità.
Lo scrittore russo, diversamente da altri suoi illustri contemporanei dalle più ampie vedute e gli ideali ancora oggi attualissimi, espone princìpi e punti di vista sgradevolmente retrogradi e maschilisti, certamente difficili da condividere nella società moderna, ma particolarmente antiquati anche agli occhi di una lettrice avvezza al romanzo ottocentesco, come la sottoscritta. È la prima volta in cui di un classico ho percepito, così fastidiosamente, tutta la sua età anagrafica.
Tolstoj mostra la sua maggiore arretratezza in particolare nella concezione dell'universo femminile: ai suoi occhi, infatti, la donna ideale è immancabilmente sottomessa, poco istruita, d'animo semplice, interessata esclusivamente ai figli e al marito, nei confronti del quale ella si trova necessariamente in posizione d'inferiorità e di dipendenza sia intellettuale che morale; le donne di casa Šcerbackij ne sono il più lampante esempio.
Non è un caso che la sola figura femminile colta, intelligente (sebbene poi tale intelligenza venga male indirizzata), e dotata di profondità dell'intero romanzo sia proprio Anna: la donna perduta, la donna che seguendo tali "pericolose" inclinazioni, rifiuta l'ideale domestico, vale a dire l'unica appropriata sfera d'azione concessa al suo sesso, e ne perisce.
Anche nella morale di fondo dell'opera, che trova il suo estremo compimento nella fine di Anna e nella conversione di Levin, ho scorto un'ambiguità e una tendenza maschilista che, lo ammetto, mi hanno profondamente irritata.
Il tragico epilogo della storia, infatti, più che suffragare la tesi secondo cui chi abbandona la retta via ne pagherà inevitabilmente le conseguenze, avvalora, al contrario, la teoria in base alla quale tutto è accettabile purché sia fatto con discrezione. Prova ne sia il fatto che personaggi come Stiva o la deplorevole principessa Betsey, ben più dissoluti e privi di cuore di Anna, non solo non pagano affatto per i loro reiterati tradimenti, ma vivono addirittura conservando il pieno rispetto della società, e nel caso di Stiva, con accanto una donna che, ormai del tutto priva di amor proprio, sopporta dolorosamente il comportamento di lui, facendosi puntualmente in quattro, all'occasione, per tirarlo fuori dai guai.
Tolstoj, per farla breve, non punisce il vizio o il peccato, ma solo chi la colpa la commette senza nasconderla: tutti gli altri sono salvi.

Sophie Marceau (Anna) e Sean Bean (Vronskij) nel film del 1997
Alquanto deludente, a mio avviso, anche la conclusione, se si pensa che, dopo pagine e pagine dedicate al tormentato monologo interiore di Anna prima del suo gesto disperato (un flusso di coscienza tra i più riusciti della letteratura di ogni epoca), la successiva sezione del romanzo si apre non con le reazioni dei personaggi alla morte della protagonista - a cui, successivamente, verranno riservate distrattamente giusto un paio di righe - bensì con un noiosissimo resoconto circa il successo editoriale dell'ultimo saggio del fratello di Levin... Una scelta che, in parte, può essere spiegata con l'intento moralistico dell'autore, ma che a fronte di innumerevoli capitoli dedicati ad argomenti totalmente superflui, suona semplicemente come una sorta di beffa.
Ho apprezzato molto, invece, l'ultimo capitolo, in cui, al termine di un'estenuante crisi spirituale (estenuante forse più per il lettore che per il protagonista), Levin trova finalmente la fede, e con essa il senso della propria esistenza; mi ha colpito in particolare la semplicità e l'assoluta concretezza con cui Tolstoj, senza indugiare sui teologismi, ma adottando una prospettiva puramente umana, ha scelto di raccontarci l'epifania di Konstantin:

“«Questo nuovo sentimento non mi ha cambiato, non mi ha reso felice, non mi ha rischiarato di colpo, come sognavo; così come non lo ha fatto il sentimento per mio figlio. Anche qui non c’è stata nessuna sorpresa. Si tratti o no della fede - di preciso non so cosa sia - questo sentimento è entrato in me attraverso le sofferenze in modo egualmente inavvertito e si è fermamente stabilito nella mia anima.
«Mi arrabbierò egualmente con il cocchiere Ivàn, egualmente discuterò, esprimerò a sproposito i miei pensieri, ci sarà sempre lo stesso muro fra il sacrario della mia anima e gli altri, e perfino con mia moglie, la brontolerò egualmente per lo spavento che ho provato, e ne sentirò rimorso, egualmente non capirò con la ragione perché prego e potrò pregare, ma ora la mia vita, tutta la mia vita, qualunque cosa accada, in ogni suo momento, non solo non è priva di senso come prima, ma ha un significato sicuro che le deriva dal bene su cui io posso fondarla.»”

Chiudendo il libro, la sensazione avvertita è stata quella di un'opera con tante potenzialità, che purtroppo, con tutte le sue tematiche, i suoi personaggi, e le molte vicende raccontate, è riuscita talvolta ad interessarmi, ma mai ad appassionarmi.
Una lettura che, certamente, ha avuto anche diversi bei momenti, ma in cui la noia, l'irritazione, e la mancanza di una solida impalcatura a fare da collante tra tutte le parti del romanzo, hanno spesso prevalso sui lati positivi, pregiudicando irrimediabilmente il mio apprezzamento dell'opera, e lasciandomi principalmente, a lettura conclusa, un senso di sollievo e, finalmente, di liberazione.

Commenti

  1. Ho letto Anna Karenina molti anni fa e ne serbo un ricordo non troppo distante dalla tua recensione. Parti noiose e una protagonista che spesso mi suscitava antipatia.
    Credo Anna sia ambivalente: è fragile perché cede alla sua passione ma anche coraggiosa (per il suo tempo) perché per quella stessa passione abbandona tutte le certezze, le convenzioni di una brava moglie e di una brava madre, esce dalla gabbia esponendosi irreparabilmente ai pregiudizi della società. Anna creatura illusa, perduta e infelice... ed è per queste ultime caratteristiche che alla fine provai una forte compassione per lei. Una tristezza tale che (almeno ai miei occhi di giovane lettrice) alla fine le fece acquistate valore. Mi colpì tanto il suo suicidio, tanto da superare tutte le digressioni e le pagine noiose antecedenti.
    Ho sempre trovato Tolstoj un po' ostico, da prendere con molta, moltissima pazienza e come dico sempre: "non il mio russo preferito ma tanto di cappello."
    Complimenti per la recensione accurata e precisa; si legge piacevolmente.^^

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    Risposte
    1. Innanzitutto grazie mille, Antonella!
      Sono d'accordo con te a proposito di Tolstoj. Il suo spessore culturale e il suo talento non si discutono, ma al di là delle valutazioni oggettive, sappiamo bene che la sensibilità individuale gioca un ruolo fondamentale nell'apprezzamento di un autore e delle sue opere, e Tolstoj, ahimè, fa parte di quegli scrittori con cui personalmente non riesco proprio ad entrare in sintonia.
      Quanto ad Anna, comprendo il tuo punto di vista: la sua complessità psicologica la rende così reale che è naturale provare compassione per lei o restare comunque colpiti dalla sua vicenda.
      Non dimentichiamo, inoltre, che agli occhi dell'opinione pubblica la sua colpa non consiste nell'intrattenere una relazione extra-coniugale - pratica comunissima e generalmente accettata nell'alta società russa dell'epoca - o nell'aver abbandonato il figlio, bensì nel mero fatto di non essere stata discreta nei suoi rapporti con Vronskij. Ipocrisia allo stato puro, insomma! E in questo senso, sicuramente, la sua scelta di vivere la propria situazione alla luce del sole, appare molto forte.
      Tuttavia, onestamente, io non ho visto coraggio nella scelta di Anna: in primo luogo perché, a livello puramente personale, fatico parecchio a trovare connotazioni positive nella scelta di una madre di separarsi deliberatamente da suo figlio - un figlio a cui, peraltro, era legatissima - per assecondare il proprio capriccio per un uomo; in secondo luogo perché, per come è fatta Anna, la sua, più che una decisione consapevole, mi è parsa sostanzialmente il colpo di testa di una donna che a un certo punto pensa di sottrarsi ad ogni responsabilità per fare ciò che desidera, e che tuttavia pretende di continuare a godere dei medesimi privilegi che le erano accordati in quanto moglie di un alto funzionario governativo, cioè di uno dei più illustri esponenti di quella stessa società a cui sta voltando le spalle.
      Se c'è una cosa (una fra le tante) che ad Anna manca, a mio avviso, è proprio la forza: la sua stessa fine è la conseguenza della sua fragilità e dell'incapacità di affrontare le conseguenze delle proprie azioni, e in questo senso è effettivamente difficile non compatirla: una donna che si condanna da sola alla rovina rinunciando irrevocabilmente a tutto quello che ha solo e soltanto a causa della propria debolezza e mancanza di giudizio. Credo sia impossibile non provare pena per la sua situazione.
      Personalmente, però, se si parla di coraggio, io ne ho visto molto di più in Aleksèj Aleksàndrovič: un uomo che malgrado l'umiliazione subita e l'inganno di cui è stato vittima - cose difficilmente sopportabili per chiunque, figuriamoci per un uomo dell'epoca, tanto più nella sua posizione - decide di mettere da parte il proprio orgoglio, esponendosi consapevolmente al ridicolo e sopportando il disonore, pur di stare accanto alla moglie. Non ho particolari simpatie neppure per il personaggio di Karenin, lo ammetto, ma questa sua scelta me l'ha fatto rivalutare enormemente sul piano umano.

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