Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Daphne Du Maurier: Rebecca la prima moglie

“Last night I dreamt I went to Manderley again.”

Tornare a Manderley, l'amatissima Manderley, varcare ancora una volta la soglia, ed essere di nuovo a casa, come allora... Ma poi sopraggiunge il giorno, e con esso i ricordi, la malinconia, l'inesorabile certezza che ormai Manderley non esiste più, che di tutta la sua bellezza non restano che le spoglie, le fredde rovine inghiottite dai rovi e dall'oblio...

Con queste memorabili immagini, sospese tra sogno e realtà, ha inizio Rebecca, il romanzo più famoso di Daphne Du Maurier, perla della letteratura del Novecento, consacrata all'immortalità, nel 1940, dalla celebre trasposizione di Alfred Hitchcock, dove una giovanissima Joan Fontaine ed un tormentato Laurence Olivier, vestivano impeccabilmente i panni dei protagonisti.
Pare proprio di vederla Manderley, quella sfarzosa tenuta sulle coste della Cornovaglia, con i sentieri fioriti, l'imprescindibile rito del tè delle cinque, i pomeriggi estivi all'ombra del vecchio castagno, e in sottofondo, il rumore del mare che s'infrange sugli scogli, ora quieto, ora furioso. E per chiunque abbia letto Jane Eyre, e ne conservi vivo il ricordo, è inevitabile tornare col pensiero alla Thornfield di Mr Rochester, percepire la medesima atmosfera gotica, gli inconfessabili segreti celati tra le mura, lo stesso infausto destino che seppellisce il passato e concede finalmente, sia pure a caro prezzo, la tanto agognata libertà. Un'affinità che, peraltro, non dovrebbe stupirci troppo, se si considera che la stessa Daphne fu da sempre una grande estimatrice della famiglia Brontë.

Tutto ha inizio in un albergo di Monte Carlo dove, durante una vacanza, la giovane dama di compagnia di una ricca signora americana fa la conoscenza dell'affascinante Maxim de Winter, facoltoso proprietario della sopracitata Manderley, non ancora ristabilitosi dalla prematura scomparsa della moglie Rebecca, avvenuta l'anno prima in circostanze drammatiche.
Dopo un'amicizia di appena un paio di settimane, Maxim, senza troppi convenvoli, chiede all'incredula ragazza di sposarlo, e lei, perdutamente innamorata, accetta.
Giunta a Manderley, però, la novella e frastornata Cenerentola, si accorge che la sua fiaba non è tutta rose e fiori, e che tra lei e la felicità coniugale si frappone un ostacolo insormontabile: Rebecca.
Ogni cosa a Manderley parla di lei: il profumo delle azalee, l'arredamento delle stanze, l'inconfondibile firma impressa sui vecchi biglietti, con la grande R inclinata che sovrasta le altre lettere, come per ribadire la propria supremazia. Rebecca rivive costantemente nei ricordi di chi l'ha conosciuta, negli oggetti che ha posseduto, nelle abitudini della quotidianità, ma soprattutto nell'ambigua e raggelante presenza della signora Danvers, la governante - uno dei personaggi più malevoli ed inquietanti in cui mi sia mai imbattuta - i cui sguardi sinistri e penetranti sembrano sempre sul punto di trafiggere la nuova arrivata.

“Qualcuno si fece avanti, in quel mare di volti, una donna alta e magra, vestita interamente di nero; gli zigomi prominenti e gli occhi grandi e infossati davano l'idea di un teschio, bianco come la cartapecora, issato su di uno scheletro.
Venne verso di me e io le tesi la mano, invidiandola per la sua dignità e la sua compostezza; ma la mano che afferrò la mia era inerte e pesante, fredda come la morte.
«Questa è la signora Danvers» disse Maxim...”

Troppo introversa per confidarsi col marito - che intanto pare sempre più distante - e tormentata dal proprio senso di inadeguatezza, la neo signora de Winter precipita presto nel vortice della gelosia, conscia che dall'inevitabile confronto con Rebecca, lei, così giovane e inesperta, non potrà che uscire sconfitta.

Joan Fontaine e Laurence Olivier in una scena del film
A narrare la storia, molti anni più tardi, è la voce della stessa protagonista, di cui - peculiarità del romanzo - non ci viene mai svelato il nome, quasi a voler rimarcare il netto contrasto con quel "Rebecca" che risuona martellante per l'intera lettura.
Fin dal primo istante in cui la incontriamo, la ragazza ci appare come un'autentica anti-eroina: è goffa, spaesata, priva di particolari attrattive, ed afflitta da una disastrosa timidezza cui fanno da contrappeso una spiccata sensibilità ed un'immaginazione fervida e in perenne tumulto: due qualità che, come si vedrà, non tarderanno a rivelarsi pericolose armi a doppio taglio.
Ben poco ci viene svelato del passato di questa "anonima" fanciulla: appena qualche flash della sua infanzia felice, e dei brevi riferimenti ai suoi defunti genitori; ciò che però impariamo a conoscere da vicino è il suo mondo interiore: i suoi sentimenti, le sue paure, e quell'amore appassionato e assoluto per il suo sposo, su cui si allunga, cupo e opprimente, il fantasma di un passato avvolto nel mistero, e tuttavia vivo come non mai.

“Rebecca, sempre Rebecca. Mi imbattevo in Rebecca ogni volta che mi aggiravo per Manderley, ogni volta che stavo seduta, perfino nei miei pensieri e nei miei sogni. Ormai avevo imparato a riconoscere la sua figura, le lunghe gambe slanciate, i piedi minuscoli e aggraziati. Le spalle, più atletiche delle mie, le mani abili, capaci. Mani che sapevano manovrare il timone di una barca o domare un cavallo. Mani che disponevano i fiori, costruivano modellini di nave e scrivevano «A Max da Rebecca» sul frontespizio di un libro. Conoscevo il suo viso, minuto e ovale, la pelle bianca e liscia, la gran massa di capelli scuri. Sapevo che profumo usava, ero in grado di immaginarne la risata e il sorriso. Avrei riconosciuto la sua voce se l'avessi udita, anche in mezzo a mille altre. Rebecca, sempre Rebecca. Non mi sarei mai liberata di Rebecca.”

Quante volte verrebbe voglia di scuoterla, di destarla dai suoi sogni ad occhi aperti, di spronarla a farsi valere e a prendere possesso del ruolo che le spetta... E quante volte, con la sua ritrosia e l'assenza di autostima, ella mette a dura prova la nostra pazienza!
Eppure a me, questa spaesata ragazza che ama fantasticare, dedicarsi al disegno, e che sogna ingenuamente d'imbottigliare i ricordi per riviverli quando se ne ha voglia, è piaciuta proprio tanto.
Mi è piaciuta la sua profondità psicologica, mirabilmente tratteggiata dall'autrice; la sua genuinità; il suo essere così imperfetta e quindi così umana, con la piena consapevolezza dei propri limiti e nel contempo la totale mancanza di leziosità. Mi è piaciuto inoltre il tono spontaneo e confidenziale con cui ci apre il suo cuore senza riserve, permettendoci di conoscerla a fondo e di accedere alle sue più intime riflessioni, nelle quali, personalmente, non ho faticato ad immedesimarmi.

“Avrei voluto tornare indietro, catturare di nuovo l'attimo fuggito, ma poi mi resi conto che anche se lo avessimo fatto non sarebbe stato lo stesso, perfino la luce del sole non sarebbe stata uguale, avrebbe gettato un'ombra diversa, la contadinella questa volta non ci avrebbe salutati, forse non ci avrebbe neppure visti. Il pensiero aveva un che di raggelante, un pizzico di malinconia.”

Il racconto, filtrato dalla lente distorta della sua soggettività, non passa solo attraverso l'esperienza, ma si serve in primo luogo dell'immaginazione: le scene del passato, l'assillante figura di Rebecca, i timori destinati a tramutarsi in incubi - elementi centrali del romanzo - li scorgiamo solo grazie alle immagini prodotte dalla sua fantasia. La sua angoscia è la nostra. Le sue impressioni le percepiamo anche noi. E quella tensione che si fa strada pian piano tra le pagine del libro, finiamo, quasi senza rendercene conto, per sentircela scorrere addosso come fossimo noi a provarla.
Proprio in questo risiede la bravura di Daphne Du Maurier: ella riesce a farci "sentire" il personaggio in modo davvero singolare, e lo fa, tra l'altro, senza mai sacrificare il piacere della lettura, né appesantire la prosa, naturalmente sobria, ma elegante e coinvolgente.

Ingiustamente (ed incredibilmente) liquidata, a suo tempo, dalla critica ostile, come un romanzetto a tinte rosa, Rebecca è in realtà un'opera appassionante e di grande impatto emotivo, che proprio come un classico film di Hitchcock, non avvince dal principio, ma conquista poco per volta, facendo leva essenzialmente sulle sensazioni più profonde e sulle inquietudini latenti del lettore.
La storia parte quasi sottovoce, con toni lievi e ambientazioni da tradizionale novel of manners; poi, proprio quando i tempi si dilatano e la narrazione, focalizzata sulla routine di Manderley, sembra apparentemente sul punto di arenarsi, ecco che la commedia iniziale cede il passo ad un magistrale thriller psicologico che sfocia poi, negli ultimi capitoli, in un giallo incalzante dagli inaspettati colpi di scena.
Daphne Du Maurier
In questo ineccepibile congegno narrativo, così sapientemente occultato sotto una parvenza di perfetta naturalezza, anche il ritmo del racconto - ora pacato, ora serrato, e talvolta lento fin quasi all'esasperazione - diventa una componente necessaria, poiché riflette fedelmente, in ogni sua variazione, gli stati d'animo della protagonista, contribuendo a ricreare quell'atmosfera suggestiva a cui il romanzo deve gran parte del suo fascino.
Su tutto, merita di essere menzionata l'abilità della scrittrice nel ritrarre, in uno dei momenti di maggiore pathos, l'istintiva reazione tipica di una mente in fibrillazione, di fissarsi ossessivamente su questioni futili e dettagli insignificanti, nel tentativo d'ingannare l'attesa divenuta insostenibile, e sviare il corso dei pensieri dalla consapevolezza di un pericolo imminente.
Tuttavia, da buona inglese qual è, la Du Maurier non ci nega i dovuti momenti di leggerezza ed ironia, regalandoci talvolta perfino dei brillanti attimi di comicità, grazie alla presenza di un antagonista dotato di innegabili risvolti umoristici come il detestabile Jack Favell.
I personaggi, non ultimo il fedele cagnolino Jasper, restano facilmente impressi nella memoria, e se è vero che quelli maschili - ciascuno a modo suo inerme di fronte alla seduzione o alla crudeltà della femme fatale di turno - si rivelano difatti l'effettivo "sesso debole" del romanzo, a dominare la scena, con la loro personalità e le loro azioni, sono indiscutibilmente le figure femminili, siano esse in carne ed ossa, o, ahimè, già passate a miglior vita.
La vera vincitrice, però, è lei: la seconda signora de Winter: quella fanciulla di appena ventun anni che conosciamo come una ragazzina romantica e insicura, intimorita dalla servitù e a disagio tra l'alta società; quella stessa donna che, nel momento della crisi, impara finalmente a combattere i propri démoni, diventando una moglie, una compagna, un'irrinunciabile ancora di salvezza per quel marito tormentato dal passato e senza prospettive per il futuro.
Rebecca, dopotutto, non è altro che la sua storia: una storia d'amore, di gelosia, di delitti, di verità troppo a lungo celate... ma in fondo, la storia di una ragazza che, per mezzo dell'amore, arriva a scoprire il proprio coraggio, la propria determinazione e, più semplicemente, a trovare la propria identità.
Una storia che, nel raccontarci tutto ciò, ci costringe a soffermarci sulle molte sfaccettature della vita matrimoniale: la differenza di età, il dialogo, la fiducia, l'uguaglianza, il passato e il presente delle relazioni umane... Il tutto senza avere la pretesa di dare insegnamenti, ma lasciandoci, a fine lettura, un richissimo bagaglio di riflessioni.

Le ultime pagine del romanzo, dominate da un'insolita quiete che prelude all'ennesimo e spiazzante colpo di scena, ci riportano quasi obbligatoriamente al capitolo iniziale, in cui, alla luce di una nuova consapevolezza, troviamo la vera conclusione della vicenda.
Intanto, dopo che tutti i misteri sono stati svelati e che la nostra immaginazione ha colmato le zone d'ombra volute dall'autrice, lasciarci Manderley alle spalle diventa anche per noi un'impresa assai ardua, mentre la pur confortante cognizione di ciò che sarà, non basta a dissipare il senso d'inquietudine evocato dalle ultime frasi, né a restituire alla cara e indimenticabile Manderley il suo ormai perduto splendore.

“La strada per Manderley si stendeva davanti a noi. Non c'era la luna e il cielo sopra di noi era nero come inchiostro. Ma, all'orizzionte, era attraversato da lampi di porpora simili a schizzi di sangue. E il vento salmastro del mare ci soffiava la cenere in faccia.”



Veduta di Manderley da una scena del film. Hitchcock, in seguito, rivelò che l'edificio non esisteva, poiché si trattava soltanto di un modellino realizzato appositamente.






Qualche curiosità...

  • Rebecca non rappresentò l'unica, né la prima "collaborazione" tra Alfred Hitchcock e Daphne Du Maurier: già nel 1939, infatti, un anno prima della realizzazione di Rebecca, Hitchcock aveva lavorato all'adattamento di un altro romanzo della Du Maurier: Jamaica Inn, con Maureen O'Hara, Charles Laughton e Leslie Banks nei ruoli principali. L'esperienza si sarebbe inoltre ripetuta, ancora una volta, nel 1963, col celebre adattamento del racconto Gli uccelli interpretato sullo schermo da Tippi Hedren.
  • I rapporti di Hitchcock con la Du Maurier ebbero in realtà origine ancor prima che egli s'interessasse alle opere della scrittrice inglese. Gerald Du Maurier, padre di Daphne, era infatti un attore teatrale ed un amico personale del regista, a cui quest'ultimo affidò il ruolo del protagonista ne Le signore di Lord Camber (1932) unico film prodotto ma non diretto da Hitchcock, che peraltro non ne fu mai entusiasta.
  • In un'intervista rilasciata al regista francese François Truffaut, Hitchcock, tracciando un parallelismo tra la storia di Rebecca e la fiaba di Cenerentola, si disse incline a ritenere che Daphne, nella stesura del romanzo - e in particolare rispetto alla figura di Mrs Danvers - fosse stata influenzata da un'opera teatrale del drammaturgo britannico Arthur Wing Pinero, intitolata His House in Order, trasposta al cinema nel 1920 da Hugh Ford, ed interpretata dalla star americana del cinema muto Elsie Ferguson.
  • A Killiney, nella Contea di Dublino, esiste un castello chiamato Manderley. Si tratta di una dimora costruita nel 1840 per volere del giudice Robert Warren che intendeva commemorare l'ascesa al trono della Regina Vittoria, e che pertanto la chiamò originariamente Victorian Castle. Nel 1997, però, il castello fu acquistato dalla cantautrice irlandese Enya - attuale proprietaria - che in nome della sua passione per il romanzo di Daphne Du Maurier, lo ribattezzò appunto Manderley, come è tutt'ora conosciuto.

    Manderley Castle (Caisleán Mhanderley), Killiney, County Dublin

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