Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Rebecca West: Il ritorno del soldato.
La solitudine di un'anima smarrita nel proprio passato.

Alla maggior parte dei lettori italiani, il nome di Rebecca West probabilmente non dirà molto; eppure, dietro a quello pseudonimo mutuato dall'eroina del Rosmersholm di Ibsen, si cela una delle personalità intellettuali più vivaci ed eclettiche del XX secolo.
Attrice, giornalista, scrittrice, critica letteraria, autrice di apprezzati reportage, nonché attivista del movimento delle suffragette, Cicely Isabel Fairfield - questa la sua vera identità - si distinse, tra le altre cose, per essere stata la prima donna a pubblicare, nel lontano 1918, un romanzo sulla Prima Guerra Mondiale.

Rebecca West
In realtà è doverosa una precisazione: sebbene il titolo possa trarre in inganno, infatti, The Return of the Soldier, che della West fu anche l'opera d'esordio, non è un romanzo di guerra: il conflitto, presente in quei giorni tanto nella mente quanto nel vissuto quotidiano della gente, diviene essenzialmente lo sfondo su cui si consuma il dramma di una vita infelice - di quattro vite, per l'esattezza - a cui gli errori del passato, le cieche illusioni della giovinezza, e i rigidi dogmi di un sistema ancora basato sul culto del ceto sociale, hanno precluso irrimediabilmente ogni speranza di felicità.

Siamo in quel di Harrow Weald, sobborgo di Londra, presso l'aristocratica residenza della famiglia Baldry, un luogo idilliaco e immerso nella natura dove, a dispetto della guerra, la vita continua a scorrere placida e indisturbata.
Il capitano Christopher Baldry, signore e padrone della casa, è via da ormai un anno, partito per il fronte come molti altri, e ad attendere sue notizie, tra gli agi della vita domestica e la ricercata eleganza della loro dimora, ci sono la moglie Kitty e la cugina Jenny.
Per quest'ultima, in verità, la calma è solo apparenza, soltanto una maschera dietro cui celare la profonda angoscia che l'assale notte dopo notte, quando gli incubi le restituiscono immagini di morte e distruzione, e l'inferno delle trincee, macchiato del sangue di centinaia di uomini, le si proietta dinanzi come in un film.
“Negli ultimi tempi avevo fatto brutti sogni su di lui: correva attraverso lo scuro marciume della terra di nessuno, calpestava una mano e balzava indietro inorridito, o distoglieva lo sguardo da una testa mozzata, e solo dopo che il mio sogno si era riempito di atrocità lo vedevo trascinarsi sulle ginocchia e mettersi in salvo... sempre che quella fosse la salvezza.”
Una mattina di marzo, improvvisamente, le due donne ricevono la visita di una sconosciuta dall'aspetto dimesso, con un volto ancora giovane ma prematuramente sciupato, di nome Margaret Grey, dalla quale apprendono che Chris, colpito da shock a seguito di un'esplosione, si trova ora ricoverato in ospedale, in stato di amnesia.
Comprensibilmente incredule e diffidenti, Kitty e Jenny dovranno presto fare i conti con una realtà ancor più drammatica: quando, infatti, una settimana più tardi rivedranno il capitano, davanti ai loro occhi non si presenterà il soldato tutto d'un pezzo partito per la Francia dodici mesi prima, bensì un uomo confuso, col contegno di un ventenne, che ha completamente rimosso ogni ricordo relativo agli ultimi quindici anni - incluso il proprio matrimonio - ed ha in testa un solo febbrile pensiero: rivedere la sua promessa sposa, Margaret.

Con una grazia innata, e una conoscenza dell'essere umano davvero sorprendente in una ragazza di appena ventiquattro anni, Rebecca West intesse una trama breve ma di grande impatto, dove gli eventi raccontati - poco numerosi, peraltro - appaiono quasi secondari rispetto alle mute inquietudini che pervadono l'animo dei protagonisti: le stesse che noi lettori possiamo solo percepire e immaginare, ma che la scrittrice, grazie ad una particolare abilità evocativa, riesce a tradurre in parole, spingendosi oltre la superficie dei fatti e cogliendone la sostanza.

Voce narrante del romanzo è Jenny, una figura che personalmente mi ha ricordato a tratti l'austeniana Fanny Price di Mansfield Park: stesso spirito contemplativo, stesso cauto riserbo, stessa attitudine a restare in disparte. A contraddistinguerla, però, è un vivido profilo psicologico che si svela poco per volta.
Ci si immerge facilmente nei suoi ricordi, nei suoi dubbi, nei suoi stati d'animo; ci si lascia trasportare dal flusso incontenibile delle sue riflessioni, e dalle ispirate descrizioni della natura che si risveglia, eppure non ci si smarrisce mai. Nonostante l'impronta modernista della narrazione, infatti, la prosa appare assai più fluida rispetto allo stile di una Virginia Woolf: l'analisi introspettiva, finissima e a tratti lirica, è qui dominata da una naturalezza che stupisce, e in cui pare riflettersi l'esigenza della stessa Jenny di prendere finalmente le distanze dall'artificiosità di Baldry Court: quel tempio del decoro dove non c'è spazio per gli orrori della vita reale, dove ogni cosa deve essere rigorosamente conforme ai più elevati ideali di perfezione, dove, in breve, "avevano reso la felicità inevitabile"... o quasi.

Attraverso lo sguardo di Jenny assistiamo sgomenti alla tragedia di Chris, inconsapevolmente in fuga da una realtà che lo logora; impariamo pian piano a comprendere le controverse dinamiche che regolano i rapporti tra i protagonisti; osserviamo lo stridente contrasto tra la bellissima Kitty e la sfiorita Margaret, evidente fin dai loro volti: 

“Il primo era una superficie levigata che rifletteva la luce come uno specchio di fronte a una finestra; il secondo era una lampada annerita dal fumo e dall'incuria, il cui olio bruciando continuava ad emanare luce.”

In un romanzo di sentimenti repressi e nette antitesi, com'è appunto Il ritorno del soldato, questa contrapposizione, così forte anche sul piano visivo, assume un ruolo determinante: a fronteggiarsi infatti non sono soltanto la diversa fisicità e le differenti classi di appartenenza delle due donne, ma soprattutto due concezioni della vita diametralmente opposte: da un lato la cultura dell'esteriorità, il materialismo, l'illusoria infrangibilità di un mondo fondato sulla finzione; dall'altro, la genuinità, l'altruismo, la dignità di un'esistenza semplice, fatta di lavoro quotidiano e pesanti sacrifici.

Ad avere la peggio nel confronto, è senza dubbio Kitty. In lei rivediamo sostanzialmente l'ambiente in cui vive: un incantevole involucro assai povero di contenuto. Nessun sentimento sincero sembra albergare dentro di lei, nessun moto di tenerezza pare in grado di toccarle il cuore, neppure il ricordo del proprio bimbo morto, convenientemente bandito dalla sua mente, come ogni altro pensiero che possa turbarne la quiete.
Benché sotto il profilo oggettivo, sia effettivamente difficile biasimare il suo disappunto, più conosciamo Mrs Baldry, più facile diventa comprendere il malessere interiore che affligge il marito, il suo insoddisfatto bisogno d'amore, l'istintiva insofferenza verso quella prigione dorata - per Kitty l'inespugnabile fortezza contro un universo che si sgretola - in cui egli ha dovuto seppellire la propria natura per conformarsi ad un modello di vita impostogli dalla famiglia e dal così detto dovere; per guadagnarsi, insomma, il posto che gli spetta nella società.

Se la figura di Chris, pur imprescindibile, resta pressoché in ombra, ben più luminoso risulta invece il personaggio di Margaret: fulgido esempio di forza morale, ed incarnazione di una femminilità autentica che non ha bisogno di mostrarsi.
Sarà proprio grazie alla sua presenza discreta e così fuori posto nella cornice armoniosa di Baldry Court, che Jenny comincerà a distinguere per la prima volta tutta la pochezza del mondo che la circonda. L'iniziale snobismo e il disprezzo verso la nuova arrivata pian piano si dissolveranno, cedendo il posto al rispetto, alla comprensione e all'ammirazione; al desiderio - quanto inconscio non ci è dato saperlo - di proiettare sui due innamorati ritrovatisi le speranze frustrate di un'intera vita vissuta dietro le quinte.
Margaret, che la narratrice arriva quasi a idealizzare come un angelo del focolare, colpisce, al contrario, proprio per la sua nuda umanità: ella è semplicemente una donna ferita, una che ha toccato con mano il dolore e la perdita, ed ha imparato ad apprezzare il valore di ciò che possiede, senza però dimenticare il prezzo di quel che non può avere.
Arriverà anche per lei un momento in cui le emozioni, troppo a lungo soffocate, tenteranno di sopraffare la razionalità, in cui le necessità dell'anima rivendicheranno le loro ragioni contro gli inderogabili dettami sociali... Ma sarà la ribellione di un istante soltanto: giusto il tempo di ricordare che non può esservi felicità fondata sulla menzogna; che la verità va affrontata qualunque essa sia; che se vi sono errori a cui è possibile, e persino doveroso, porre rimedio, ve ne sono altri - e sono spesso i più gravi - per i quali invece non si potrà mai smettere di pagare.

Una scena tratta dal'omonimo film di Alan Bridges del 1982

"Non puoi scappare abbastanza lontano. A meno che non smetta di vivere, non puoi scappare dalla vita."

Queste parole, che l'americana Edna Ferber faceva pronunciare a uno dei personaggi di So Big - l'opera che nel 1925 le valse il Premio Pulitzer - mi sono tornate in mente più volte durante la lettura, forse perché in esse è contenuto un po'tutto il senso di questo romanzo.
L'impressione, però, è che la storia stessa sia in realtà il pretesto per parlare di qualcos'altro; non a caso le pagine più belle del libro, quelle che davvero ne costituiscono il cuore pulsante, sono proprio quelle in cui l'autrice imbastisce una lucida e profonda riflessione sull'amore: un amore che non si esaurisce nell'attrazione dei corpi, ma la trascende, trovando il suo fondamento nella silenziosa comunione delle anime; un amore che non risente del tempo o della separazione, ma resiste all'età e ai cambiamenti; un amore che non sfida spavaldamente le convenzioni - come vorrebbe un certo romanticismo spicciolo figlio della cultura moderna - ma che, quando necessario, sa piegarsi di fronte ai doveri imposti dall'esterno, e in virtù della propria autenticità, accetta anche l'impossibilità di concretizzarsi, perché non può dimenticare che:

“L'obbligo primario dell'amore è salvaguardare la dignità di chi si ama”.

È animata da queste profonde convinzioni che, la narratrice, nel ritrarre una delle scene più evocative del racconto - quella in cui Margaret, seduta in mezzo all'erba, veglia premurosa sul sonno di Chris - non teme di affermare che:

“So che ci sono cose altrettanto grandi per quelle di noi il cui spirito sa cavalcare indomito e curioso oltre il giardino delle relazioni personali, ma non è l'indipendenza ciò a cui pensa gran parte delle donne. Ciò che desideriamo è una grandezza come quella che fa addormentare serena accanto a noi la persona che amiamo.”
 Riflessioni, queste, che espresse da una femminista militante come la West, ci danno l'esatta misura di quanto grande fosse la differenza tra il femminismo delle origini, di cui la scrittrice fu emblema, e la deriva ideologica che ha talvolta caratterizzato il movimento a partire dalla seconda metà del Novecento.

“Scendeva un crepuscolo che era come una malinconia della terra. Sotto i rami del cedro intravidi appena una figura che cullava qualcosa fra le braccia. Si era quasi dissolta nell'ombra, fra un momento la notte l'avrebbe portata via. Voltando la schiena a quella felicità morente, Chris attraversò il prato. Sollevò lo sguardo verso la casa che lo sovrastava, quasi che fosse un luogo detestato verso cui, contro ogni speranza, gli affari lo avevano costretto a fare ritorno. Si fece da parte per evitare la chiazza di luce che una finestra illuminata proiettava sull'erba; nella nostra casa la luce era peggio dell'oscurità, così come altrove l'amore era peggio dell'odio. Sul volto aveva un sorriso atrocemente gentile; conoscevo già in anticipo il piglio sicuro con cui avrebbe alzato la voce per salutarci. Quel pomeriggio lo avevo visto muoversi con il passo sciolto di un ragazzo, ma ora appoggiava pesantemente i talloni, come un soldato.”
Le ultime pagine del romanzo ci consegnano un epilogo bruciante e insieme perfetto. Un epilogo inevitabile, realistico, senza futili consolazioni, in cui l'amara certezza del presente si mescola alle ombre cupe del futuro, mentre ciò che resta, a noi lettori, non è altro che il riflesso della vita reale, quella da cui appunto non si può fuggire; quella a cui tutti infine faranno ritorno, malgrado tutti i sogni infranti e il rimpianto per le occasioni perdute.

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