Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Daphne Du Maurier: Mia cugina Rachele

“Una volta gli assassini venivano impiccati a Four Turnings. Ora non più.”

La lettura di un romanzo di Daphne du Maurier - chi la conosce lo sa bene - non si conclude semplicemente dopo aver voltato l'ultima pagina: c'è infatti una fase successiva, forse perfino più intensa, che si protrae a lungo, a volte anche per giorni interi, ed ha inizio quando, chiuso il libro, si resta da soli coi propri dubbi, con le proprie riflessioni, con quella strana ed inspiegabile sensazione di non essersi veramente congedati dai personaggi, né dagli scenari indimenticabili della Cornovaglia, silenziosi ma ineludibili testimoni delle loro vicende.
È trascorso ormai molto tempo da quando mi sono separata da Philip, da Louise, da Rachele, eppure ogni volta che il pensiero torna a loro, mi sembra quasi di sentirmela addosso quella frizzante aria settembrina pregna dell'odore della salsedine; di udire da lontano il rumore delle onde che s'infrangono sulle scogliere; di percepire ancora intorno a me la quiete surreale di una notte di dicembre rischiarata dalla luna... e mi pare di scorgere perfino lui, il vecchio Tom Jenkyn: quel
“povero malridotto esemplare di umanità, irriconoscibile e incompianto”
che da troppi anni penzola inerte da una forca - proprio là dove lo vide in una sera d'inverno il piccolo Philip Ashley - monito lugubre e pietoso contro le più rovinose debolezze dell'essere umano.



C'è qualcosa di tipicamente dickensiano nella scena con cui si apre Mia cugina Rachele: qualcosa che fin dalla prima pagina mi ha riportato alla mente la vicenda di un altro Philip - Philip Pirrip - meglio noto come Pip, protagonista di quel capolavoro assoluto che fu Grandi speranze, le cui atmosfere fosche e dense di mistero sembrano pervadere un po' tutto il romanzo, a partire proprio dalla trama.
Rimasto orfano in tenera età, e privo di altri parenti in grado di prendersi cura di lui, Philip Ashley viene allevato in modo assai poco convenzionale dal cugino Ambrose, un giovane scapolo senza alcuna esperienza coi bambini, da cui eredita l'indole introversa e l'ostinata diffidenza nei confronti delle donne, con l'unica eccezione di Louise Kendall, sua compagna di giochi e fidata amica, nonché figlia del suo padrino.
Il passare degli anni e gli studi lontano da casa non cambiano minimamente il carattere del ragazzo che, divenuto maggiorenne e tornato nella tenuta di famiglia, nutre la sola ambizione di occuparsi delle terre insieme allo stimato cugino, da sempre suo punto di riferimento ed insostituibile modello di vita.
Quando però le condizioni di salute di Ambrose spingono quest'ultimo a trascorrere l'inverno in Toscana alla ricerca di climi più miti, le cose cambiano. Durante il soggiorno all'estero, infatti, l'uomo fa la conoscenza di una lontana parente di nome Rachele e qualche mese più tardi, con grande incredulità da parte di Philip, annuncia di averla sposata.
Nonostante l'apparente idillio, un giorno il giovane Ashley riceve un'allarmante lettera che lo spinge a partire immediatamente per l'Italia, dove purtroppo si troverà a fare i conti con una triste scoperta. Il ragazzo torna quindi a casa, affranto e divorato dal rancore nei confronti della sconosciuta Rachele, che ritiene responsabile dell'accaduto.
Qualche tempo dopo, però, la donna giunge inaspettatamente in Inghilterra.


Richard Burton (Philip) e Olivia De Havilland (Rachele) in una scena del film di Henry Koster (1952)

Ho sempre saputo che avrei apprezzato questo romanzo, eppure dopo la parziale delusione sperimentata lo scorso anno con Jamaica Inn, ho preferito rimandarne per un po' la lettura: non perché temessi di restare nuovamente insoddisfatta, ma piuttosto perché, essendo ansiosa di ritrovare la du Maurier che tanto avevo amato in Rebecca, desideravo attendere il momento più propizio per godermi appieno quest'opera così acclamata.
L'attesa, a onor del vero, è stata ampiamente ripagata, poiché il libro che mi sono trovata dinanzi - un magistrale thriller psicologico costruito a regola d'arte - ha saputo conquistarmi fin dal suo memorabile incipit, tenendomi completamente avvinta, come raramente accade, dalla prima all'ultima pagina.

Scritto nei primi anni '50, ma ambientato in piena epoca vittoriana, My cousin Rachel è un eccelso esempio di letteratura noir che dosando sapientemente la suspense in un sottilissimo gioco di equilibri tra dubbio e certezza, tra realtà e immaginazione, riesce a far vibrare le corde delle più intime inquietudini umane alludendo ed insinuando il sospetto nel lettore, ma nel contempo evitando accuratamente di svelare troppo.
A colpire maggiormente, tuttavia, è innanzitutto lo straordinario profilo umano e psicologico del protagonista, tratteggiato con tale realismo nelle sue contraddizioni, nei suoi stati d'animo, nella sua esasperante ossessione, da farci dimenticare, mentre ci immergiamo nel racconto, che a scrivere sia una donna. Diversamente da tante altre autrici del passato - mi vengono in mente, su tutte, le sorelle Brontë - Daphne du Maurier unisce infatti ad una sensibilità non comune, una totale comprensione dell'altro sesso che le consente di calarsi a trecentosessanta gradi nella mente e nell'anima di Philip senza mai tradire la propria natura femminile; nel momento in cui dà voce ai tormenti di quest'ultimo, ai suoi pregiudizi verso le donne, alla sua crescente consapevolezza di sè, delle proprie emozioni e dei propri desideri, la du Maurier "diventa" a tutti gli effetti il suo personaggio: un giovane inesperto, pericolosamente ignaro delle proprie debolezze, e completamente cieco di fronte alle realtà della vita proprio come l'amato cugino Ambrose.
Quante volte avrei voluto scuotere Philip dal suo torpore, costringerlo ad aprire gli occhi di fronte ad una verità che lui solo è incapace di vedere... quante volte, proprio come la fedele e attenta Louise - personaggio verso cui ho provato una particolare empatia - mi sono indignata davanti alla sua stolta ingenuità e alla sua irragionevole devozione, tanto da arrivare a pensare che ciò che gli accade, se lo sia in fin dei conti meritato... Eppure, malgrado tutto, una parte di me non è comunque riuscita a giudicarlo troppo severamente: perché l'impeccabile lavoro d'introspezione attuato dall'autrice - e sostenuto, inoltre, dall'efficacissimo uso dell'io narrante - ci spinge ad immedesimarci a tal punto nel mondo interiore di Philip, da permetterci di comprenderne a fondo, sia pur senza condividerli affatto, i comportamenti e le scelte, perfino quelle più discutibili.
 Con genuino realismo, Daphne du Maurier immortala il progressivo e quasi impercettibile evolversi del rapporto tra i due protagonisti: l'ostilità iniziale, la diffidenza, lo stupore del primo incontro, la fredda cortesia che lascia spazio alla sincera cordialità, la spontanea confidenza destinata a trasformarsi in complicità, la vicinanza occasionale che diventa un'abitudine a cui col tempo è sempre più difficile rinunciare, mentre la crescente attrazione offusca il discernimento, e la netta percezione della propria individualità si stempera pian piano nella vagheggiata prospettiva di un futuro insieme...
Probabilmente è proprio in questo ritratto così vivido e cosapevole del processo dell'innamoramento, che s'intravede l'unico autentico indizio dell'identità di chi scrive: perché soltanto lo sguardo sensibile ed intuitivo di un'osservatrice donna avrebbe potuto fotografare con tanta lucidità - e un pizzico di sottilissima ironia - la vulnerabilità di un animo maschile completamente soggiogato dalla tirannia dei sensi e accecato dalla passione.


Daphne Du Maurier



È quasi impossibile parlare di Mia cugina Rachele senza cedere alla tentazione di un confronto col più celebre Rebecca (qui la mia recensione) non solo per via della comune autrice, ma anche perché i due romanzi, pur raccontando delle storie di per sé molto diverse - Rachele, tra l'altro, vanta una struttura narrativa a mio avviso ancor più compatta e meglio strutturata del suo predecessore - ruotano entrambi intorno a dei personaggi femminili dello stesso tipo.
Da un lato abbiamo Rebecca: un fantasma, un'ombra minacciosa, un'entità impalpabile e sfuggente, che però ad un certo punto, diviene finalmente intelligibile; dall'altro, invece, troviamo una donna in carne ed ossa di cui sentiamo la voce ed osserviamo i comportamenti: una figura reale che sembra offrirsi interamente al nostro sguardo, e che invece, paradossalmente, resta per noi - e per gli stessi protagonisti della storia - un enigma irrisolvibile e pertanto, almeno dal mio punto di vista, ancor più inquietante.

“Chi è dunque Rachele?” continuiamo a domandarci anche dopo aver chiuso il libro... anche dopo aver inevitabilmente ripreso in mano - alla fine della lettura - il primo intenso capitolo, di cui - proprio come accadeva in Rebecca - solo a questo punto riusciamo a cogliere pienamente tutto il significato...
Chi è quella donna dall'aspetto minuto e innocuo, che ha tenuto in mano le sorti di due uomini così diversi da lei - due anime vulnerabili, due sognatori  

“privi di spirito pratico, solitari, con la testa imbottita di grandi teorie che non venivano mai messe alla prova”?
Chi è insomma Rachele? Semplicemente una straniera disinibita e dai liberi costumi, o - per utilizzare le parole di Daphne du Maurier -

 “una creatura non responsabile delle proprie azioni, offuscata dal male. Plagiata e incalzata da un uomo che aveva potere su di lei, priva - per un difetto congenito e per colpa delle circostanze - di un vero senso morale”?
È in questa eterna condanna al dubbio, in questo limbo perpetuo e destinato a non trovare risposte definitive, che risiede tutta la potenza del romanzo, tutto il dramma del protagonista: quel tormento senza requie che, come lui stesso ci racconta, lo accompagnerà per una vita intera, sempre combattuto tra odio e amore, tra orrore e senso di colpa... Consolato, forse, da quell'unica amara certezza:
“Una volta gli assassini venivano impiccati a Four Turnings. Ora non più.”

Commenti

  1. Ciao Alice, aspettavo da tempo un tuo nuovo post e quando ho visto che era su uno dei miei romanzi preferiti, non potevo che dire la mia. Ho riletto Rachele lo scorso anno, dopo un primo fallimento di diversi anni fa. Il periodo era terribile e il capolavoro di Daphne mi lasciò l'amaro in bocca ma permaneva quella sensazione che fosse dovuto alle circostanze non propizie e non al testo in sé. Anche io, come te, avevo adorato Rebecca, ma Rachele mi aveva proprio delusa. Ripreso in mano in un momento di serenità, l'ho trovato strepitoso. Enigmatico, molto introspettivo, a tratti inquietante, con quel filo di tensione sempre presente e che ti lascia il desiderio di rimanere incollato alle pagine. Di sicuro la traduzione eccelsa di Marina Morpurgo fa la differenza; scelte linguistiche notevoli, come di rado se ne trovano... e la nuova edizione Neri Pozza... Copertina in tema, carta di qualità, tutto splendido a parte la mancanza di un'introduzione e di qualche nota. Philip è scandalosamente immaturo e anche io non riuscivo proprio a tollerarlo, ma Rachele sembra prendere vita davanti ai tuoi occhi. Io l'ho trovata un personaggio davvero geniale nel suo essere sfuggente e mutevole. Insomma una Daphne indimenticabile. Jamaica Inn l'ho letto qualche mese fa e, effettivamente, non regge il confronto. I personaggi sono appena abbozzati, sempre un po' al margine degli eventi, ma che atmosfera! Solo per quella vale la pena di leggerlo. Brughiera all'ennesima potenza. E io alla brughiera non so proprio resistere!!! Elisabetta

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    1. Ciao Elisabetta, e innanzitutto grazie per il tuo commento. Come ribadisco spesso, credo che uno dei tanti piaceri della lettura sia quello di poter condividere le proprie impressioni con altri lettori, e per questo, ogni volta che ne ho la possibilità, sono ben lieta di farlo.
      Anche a me in passato è accaduto di non riuscire ad apprezzare un libro perché avevo scelto di affrontarlo in un momento non particolarmente propizio (un esempio su tutti: Middlemarch di George Eliot, che poi è diventato uno dei miei preferiti in assoluto - a proposito, ne parlerò a breve qui sul blog). Molti ritengono che sia una sciocchezza, invece io credo che la predisposizione psicologica sia uno dei principali elementi che fanno la differenza nel gradimento di un'opera.
      Tornando a Rachele, concordo pienamente con te; non ho letto la versione Neri Pozza, ma anche nella mia edizione (Il Saggiatore) la traduzione è quella di Marina Morpurgo, ed anch'io lo trovata eccellente.
      Philip credo sia uno dei personaggi in cui la Du Maurier dà il meglio: è difficile non irritarsi per il suo atteggiamento, e tuttavia Daphne riesce ad addentrarsi così bene nella sua interiorità da permetterci ugualmente di arrivare ad empatizzare con lui, o quanto meno, a comprendere nel profondo ciò che lo muove e lo porta a sbagliare. È una qualità non comune anche tra i bravi scrittori, e il fatto che sia una donna a ritrarre così bene un animo maschile, secondo me, rende il tutto ancor più ammirevole.
      Sono d'accordo anche su Jamaica Inn: non lo ritengo affatto uno dei lavori più riusciti di Daphne, ma lo stile di scrittura e - come appunto notavi - le atmosfere della brughiera inglese, lo rendono comunque una bella lettura che vale la pena di affrontare.

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  2. Infatti, Alice, di 'Rachele' cambia solo l'edizione mentre la traduzione è sempre la stessa, per fortuna, trattandosi di una scrittrice ancora sotto diritti di autore.
    Non ho mai letto Middlemarch, anche se ce l'ho in un'edizione inglese. Ho letto, invece, 'The mill on the floss' e lo porto ancora nel cuore come uno dei romanzi più intensi e toccanti mai affrontati... Ne ho sottolineato pagine e pagine per la profondità di alcuni passaggi e Maggie Tulliver, la protagonista, l'ho amata alla follia. Con Eliot è un po' come con Dickens (grandissimo amore di entrambe, vedo); si va sul sicuro, basta prendersi tutto il tempo per comprenderne la finezza psicologica e descrittiva. Anche il loro romanzo peggiore sarà comunque bellissimo. Curiosa di leggerti su Middlemarch. A presto. Elisabetta
    P.S.: qualche giorno fa, ho letto un tuo commento su Cronin e mi si è aperto il cuore. Autore immenso seppur snobbato e dimenticato dai più. Leggi Hatter's castle o The stars look down. Non li dimenticherai mai!!!

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    1. Concordo pienamente sulla Eliot e su The Mill on the Floss, un romanzo toccante come pochi altri.
      Quanto a Middlemarch, la recensione è in arrivo per il bicentenario di George Eliot che cade proprio il 22!

      Riguardo Cronin sono d'accordissimo con te e ti ringrazio per i suggerimenti. Purtroppo in Italia, oltre ad essere poco noto è stato anche penalizzato a lungo da delle traduzioni - come avrai avuto modo di notare - a dir poco avvilenti. Proprio in quest'ultimo periodo la Bompiani sta ripubblicando La cittadella in una traduzione nuova di zecca. Speriamo sia valida e, soprattutto, che sia solo l'inizio di una piena riscoperta delle opere di Cronin.

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  3. Sì, Cronin è stato uno degli autori più penalizzati quanto a traduzioni. Ce ne sono anche di belle, intendiamoci, ma alcuni suoi colossi sono stati davvero trattati con superficialità e, permettimi di dire, boria da parte dei traduttori. Dirlo mi pesa, essendo passata dall'altra parte, ma è così. Si possono tollerare refusi, errori (nessuno di noi ne è esente) ma mancanza di amore verso l'autore mai. E Cronin spesso non è stato amato da chi lo traduceva; lo si evince dal fatto che di dieci aggettivi ne sono stati tradotti quattro, ad esempio. Molte frasi sono state liquidate in modo sbrigativo, privandole di oltre metà della loro bellezza. Altre addirittura ignorate. Invidio molto (in senso buono) chi si occuperà di questo Autore straordinario; spero si renderà conto della fortuna che ha di poter lavorare sui suoi testi. Scusa, c'entra poco con Middlemarch (e anche meno che poco), ma questo è uno scrittore che amo immensamente e non avendo Facebook per rispondere al tuo commento, l'ho fatto qui. Buona giornata, Alice. Mi leggerò con attenzione la tua recensione su Middlemarch. E cercherò di non andare fuori tema :)

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    1. Non scusarti assolutamente, per me è sempre un piacere leggere le tue interessantissime considerazioni, oltretutto trovo che la letteratura non si possa dividere in compartimenti: una delle cose più belle e, per me, più naturali è proprio fare parallelismi e confronti tra opere e autori, quindi se parlando di un romanzo capita spontaneamente di divagare e discutere anche d'altro, ben venga! ;)

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