Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

George Eliot: Middlemarch

Nelle prime ore del 22 novembre 1819 - esattamente duecento anni fa - in un piccolo casolare in pietra nascosto tra i boschi del Warwickshire, a circa quattro miglia da Nuneaton, nasceva una bimba di nome Mary Ann, quinta figlia di Robert Evans, amministratore di una tenuta, e di sua moglie Christiana.
George Eliot (François D'Albert Durade)
Nessuno, probabilmente, avrebbe potuto immaginare che nel giro di qualche decennio quella stessa bambina, divenuta ormai donna, sarebbe entrata nella Storia con lo pseudonimo di George Eliot, conquistando a pieno titolo un posto d'onore tra i nomi di spicco della letteratura vittoriana, e destando scalpore, tra i ben pensanti, per la sua scelta di dividere la propria vita col filosofo e critico letterario George Henry Lewes, col quale visse per quasi un quarto di secolo, senza però mai sposarlo.
In realtà, a differenza di quanto si potrebbe immaginare, le ragioni che portarono Mary Ann, detta Marian, a vivere al di fuori degli schemi - e a trovarsi, così, relativamente emarginata dalla società - avevano ben poco a che fare con la sua presunta spregiudicatezza.
Lewes, infatti, quando conobbe Marian, era già (infelicemente) sposato e padre di tre bambini, e benché la moglie fosse da tempo apertamente legata ad un altro uomo, da cui peraltro aveva già avuto due figli, George era impossibilitato a divorziare da lei perché, avendo accettato tacitamente la situazione, egli - secondo la legge dell'epoca - si era in un certo senso reso complice dell'adulterio.
Anticonvenzionale ma nel contempo legata alle tradizioni, Marian condusse in verità una vita tutt'altro che scandalosa; profondamente devota a Lewes, a cui dedicò appunto il suo nom de plume, ella visse a tutti gli effetti come la sua legittima sposa, senza aver mai timore, anche pubblicamente, di riferirsi a lui come a "suo marito", e riuscendo infine - cosa apparentemente impensabile per l'epoca - ad ottenere una sorta di pieno riconoscimento sociale della propria situazione, tanto che, nel 1877, un anno prima della prematura scomparsa di George, lui e Marian furono perfino presentati alla Principessa Louise, figlia della Regina Vittoria, che come la madre era una grande estimatrice di George Eliot, e aveva a lungo desiderato incontrarla.
Oggi, per celebrare il bicentenario della sua nascita, ho deciso di parlarvi di quello che credo possa essere considerato uno dei capisaldi assoluti della letteratura inglese, nonché, per quanto mi riguarda, uno dei romanzi più belli e indimenticabili che abbia mai avuto occasione di leggere: Middlemarch.


Santi, intellettuali, statisti, scienziati e artisti: sono queste, generalmente, le personalità di cui i libri narrano le gesta, i protagonisti di quelle imprese e di quegli eventi che sono entrati nella Storia mutandone talvolta il corso.
Esiste però un eroismo molto meno eclatante, una grandezza più schiva, più sottile, che altrettanta importanza ha avuto nel determinare le sorti del genere umano: è la grandezza della gente qualunque, di coloro che nell'ombra delle proprie vite ordinarie operano per il bene dei loro cari e del loro prossimo; lo fanno in silenzio, senza compiere azioni tali da meritare gli onori della cronaca, ma nel loro piccolo cambiano in positivo la vita di chi gli sta accanto, e rendono davvero il mondo un posto migliore.
È di ciò, in sostanza, che ci parla Middlemarch: questo straordinario caleidoscopio di storie, tematiche, personaggi e sentimenti, dove i destini individuali s'intrecciano inesorabilmente, mentre le eterne dinamiche della vita di provincia si fondono nel ritratto vibrante e sempre attuale di un'umanità in cui è facile, anche per un lettore del XXI secolo, ritrovare un po' di sé.

“Le scene che provocano dei cambiamenti fodamentali nel destino del nostro prossimo non sono altro che lo sfondo del nostro, eppure, come un particolare aspetto dei campi e degli alberi, noi li associamo a certi momenti della nostra storia, ed essi divengono parte di quel tutto che si trova nella scelta della nostra coscienza più intensa.

Impreziosito da uno stile corposo, dotto, e di rara bellezza, Middlemarch è un romanzo intenso ed appassionante, dove George Eliot, mostrando la stessa disinvoltura nel riportare un vivace dialogo tra sorelle, o nell'imbastire un'acuta riflessione sulle inezie della quotidianità, spazia con naturalezza dalla politica alla religione, dalla medicina all'analisi sociale, senza divenire mai saccente o aver la pretesa d'impartire lezioni.
Nonostante il suo elevatissimo spessore culturale affiori sovente nei molti riferimenti letterari, scientifici e teologici di cui è infarcita la prosa, la scrittrice non dà affatto l'impressione di autocompiacersene o di volerlo esibire, né i vari approfondimenti sui temi affrontati appaiono mai come noiosi esercizi di stile: ogni parola, ogni osservazione, ogni descrizione colpisce invece per l'assoluta genuinità, e diventa componente necessaria e imprescindibile della narrazione stessa.

Siamo lontani dagli scenari bucolici tipici del dramma vittoriano cui la Eliot ci aveva abituati nelle sue precedenti opere: nel microcosmo di Middlemarch, dove le giornate trascorrono tra lavoro, chiesa, campagne elettorali e gossip della buona borghesia, a dominare la scena non sono gli orfanelli maltrattati, le donne perdute, o i furfanti senza scrupoli della più consolidata tradizione letteraria vittoriana, bensì le persone comuni: ricchi e poveri, colti e ignoranti, onesti e corrotti... ciascuno con le proprie vicissitudini, le speranze, le tentazioni, i successi, e i fallimenti.
Attenzione però: la normalità immortalata dalla scrittrice inglese non ha niente a che fare con la mediocrità, e infatti al centro del romanzo vi sono proprio due figure, quelle di Dorothea Brooke e Tertius Lydgate, che si distinguono per la profonda sensibilità e per il comune desiderio di realizzare grandi cose: l'una importanti progetti filantropici, l'altro ambiziose innovazioni nel campo della medicina; aspirazioni, queste, destinate presto a sfumare tra gli imprevedibili e talvolta dolorosi sentieri della vita reale.
Entrambi giovani, idealisti e appassionati, Tertius e Dorothea si potrebbero definire due protagonisti "complicati", tanto è vero che, sulle prime, il mio rapporto con loro - con la seconda soprattutto - non è stato propriamente idilliaco.
All'inizio del romanzo, l'immagine che abbiamo di Dorothea è essenzialmente quella di un'irriducibile asceta: una ragazza che, malgrado l'intelligenza e le ottime prospettive, non esita ad infliggersi rinunce d'ogni sorta, rifiutando ostinatamente qualsiasi soddisfazione o piacere materiale che potrebbe distoglierla dalla spiritualità e dall'agognato raggiungimento del più elevato sapere.
Sarà proprio sulla scia di questo estatico fervore religioso che l'inesperta fanciulla convolerà a nozze con Edward Casaubon, arido studioso di mezza età, interamente dedito alla stesura di un'obsoleta opera teologica, e segretamente oppresso da un forte senso d'inadeguatezza
“Mr Casaubon non aveva mai avuto una costituzione robusta, e la sua anima era sensibile senza essere entusiasta: era troppo languida per passare con entusiasmo dall'imbarazzo alla gioia appassionata; continuava a svolazzare sul terreno paludoso dove era stata covata, pensando alle proprie ali e mai a volare.
Il suo carattere era di quel genere penoso che si ritrae dalla compassione, e più di tutto teme di venir conosciuto; si trattava di quell'orgogliosa, gretta sensibilità che non possiede sufficiente massa in più da trasformare in comprensione e trema come una foglia in piccole correnti di apprensione personale o, nel migliore dei casi, di una scrupolosità egoistica.”

È arduo comprendere la scelta di Dorothea e la sua cieca devozione per Casaubon, ma lo è ancor di più vincere la repulsione fisica e morale nei confronti dell'uomo, di cui, pagina dopo pagina, vengono alla luce tutta la meschinità e la bassezza, tali da rivelare un personaggio tra i più sgradevoli di sempre.
Dorothea, però, non è solo ciò che appare ad un'occhiata superficiale: ce ne accorgiamo pian piano, mentre, grazie alla finissima caratterizzazione psicologica delineata dall'autrice, impariamo a conoscerne intimamente l'animo, scoprendo così una giovane donna caparbia, ardente, e nel contempo candida e ingenua, la cui intensa vita interiore sarà necessariamente condannata a scontrarsi con 
“i condizionamenti di una situazione sociale imperfetta in cui i grandi sentimenti spesso assumono l'aspetto dell'errore, e una gran fede quello dell'illusione”.
Sebbene diversissima per estrazione sociale e personalità, Dorothea mi ha in parte ricordato un'altra meravigliosa creatura di George Eliot, Maggie Tulliver: protagonista de Il mulino sulla Floss, con cui condivide la stessa "insaziabile fame del cuore": quel bruciante bisogno di tenerezza che lei, ancora ignara di cosa sia l'amore e legata ad un marito gelido e indifferente, non è in grado di decifrare né tanto meno di appagare.
Ci vorrà del tempo prima che Dorothea, superando i preconcetti, giunga ad una piena conoscenza di se stessa e del mondo, e in questo difficile cammino, irto di ostacoli ed inevitabili delusioni, un ruolo determinante avrà Will Ladislaw, il cugino povero di Casaubon: un giovane brillante e ribelle, dall'indole inquieta e i mille talenti mai coltivati sul serio; uno spirito libero con idee progressiste ed animo nobile, che disdegna le formalità e venera la bellezza; una figura luminosa ma piena di contrasti, che cercando la sua strada troverà la propria ragione di vita in un amore tanto profondo quanto irrealizzabile.
Non meno interessante, seppur a mio avviso meno amabile, è il personaggio di Tertius Lydgate: giovane ed orgoglioso medico (a tratti fin troppo pieno di sé) che vive la professione come una missione, ma che fatalmente accecato dalla passione dei sensi, manderà all'aria i suoi ferrei propositi e cederà al fascino della bella Rosamond Vincy, ineguagliabile emblema di frivolezza ed egocentrismo.

Intorno a queste figure, la Eliot, coniugando le impeccabili doti di narratrice con una conoscenza dell'animo umano comune a pochi, intesse le vicende dei numerosi personaggi secondari tra cui spiccano la saggia Mary e il suo amato Fred, ragazzo di buon cuore ma svogliato e immaturo; il ricco misantropo Featherstone, dal cui controverso testamento dipendono le sorti dei molti eredi; il maldestro zio di Dorothea, le cui presunte idee liberali convivono con la radicata fede nella debolezza dell'intelletto femminile... Nessuno di essi è riconducibile ad uno stereotipo: la scrittrice infatti riesce a calarsi completamente nelle personalità più disparate, e ne sonda le profondità in modo davvero sorprendente; e se in alcuni capitoli lo svolgimento della trama cede il passo alla pura introspezione, tali frangenti non vengono mai percepiti come lenti o superflui, ma rafforzano invece il senso d'identificazione, permettendo al lettore di seguire da vicino la progressiva evoluzione umana e morale dei singoli personaggi: uno degli aspetti a parer mio più affascinanti e riusciti dell'intera opera.



"Middlemarch. A Study of Provincial Life", recitava il frontespizio dell'edizione originale; non deve stupire, quindi, che a fare da filo conduttore al romanzo sia il tema del matrimonio: fondamento della famiglia e, di conseguenza, della società che George Eliot, nel suo studio di vita provinciale, si propone di ritrarre. 
Nello spazio di oltre ottocento pagine, l'autrice passa in rassegna, con delicatezza e singolare lucidità, molteplici tipologie di famiglie, amori e relazioni. Ci parla dell'innamoramento, delle difficoltà coniugali, affronta il tema della differenza d'età e il fisiologico sviluppo dei rapporti di coppia, passando per le rovinose incompatibilità di cui troppo spesso ci si accorge quando è ormai tardi... Il tutto garantendo sempre la piacevolezza della lettura, ed evitando la severità e i facili moralismi tipici dell'epoca.
 “Il matrimonio, che è stato la meta di tante narrazioni, è ancora un grande inizio, come lo fu per Adamo ed Eva, i quali trascorsero la luna di miele nell'Eden ma ebbero il primo figlio fra i rovi e i cardi del deserto. È ancora l'inizio dell'epica domestica - la graduale conquista o la perdita irrecuperabile di quell'unione completa che fa dell'avanzare degli anni il punto culminante, e della vecchiaia la messe di dolci ricordi in comune. 
 Alcuni si mettono in cammino, come i Crociati di un tempo, con un risplendente bagaglio di speranza e di entusiasmo, e vanno a pezzi lungo la strada, privi di pazienza l'uno verso l'altra e verso il mondo.”
È una grandiosa opera sulla vita, dunque, quella a cui l'instancabile penna dell'autrice inglese ha dato vita nel lontano 1872, calibrando con sapienza ironia e dramma, e dipingendo tra le righe, così come nell'immaginario del lettore, scene vivide e cariche di emozioni: una su tutte, l'ultimo indimenticabile tête-à-tête tra Dorothea e Will, dove il suggestivo imperversare del temporale, sullo sfondo, sembra dar voce al tumulto interiore dei protagonisti.

Mentre stava parlando ci fu la luce vivida di un lampo che illuminò i loro volti - e la luce parve il terrore di un amore senza speranza. Dorothea balzò immediatamente indietro dalla finestra; Will la seguì, afferrandole la mano con un moto spasmodico; e così rimasero, con le mani intrecciate, come due bambini a guardare il temporale, mentre il tuono scoppiava in uno schianto e un frastuono tremendi sopra di loro, e la pioggia cominciava a scrosciare.”

George Eliot ritratta dalla Principessa Louise
 Sono moltissime le sensazioni che questa magnifica lettura mi ha regalato, e che anche a distanza di anni continuo a ricordare; ma un aspetto in particolare mi resterà impresso sopra ogni altro: Dorothea.
Mi sono insolitamente affezionata a lei, ed è stata, credo, la prima volta che un personaggio tanto lontano da me mi ha ispirato una tale empatia. È stato facile, superate le prime impressioni, immedesimarsi nei suoi stati d'animo, nei suoi dubbi, e nelle sue riflessioni. L'ho ammirata per quell'umiltà che la spinge a migliorarsi sempre; per quell'amore per il prossimo che le consente di dare un senso all'esistenza anche quando tutto sembra perduto; per quella forza d'animo che l'aiuta a rialzarsi dopo ogni caduta, e ad accettare anche ciò che fa male, senza mai trasformarsi in rassegnazione o passività.
Ma c'è qualcosa di ancor più ammirevole in Dorothea: ed è il coraggio, dopo tante traversie, di sfidare le convenzioni, i ben pensanti, e la sua stessa famiglia, per prendere finalmente in mano la propria vita, e scrivere da sé il meritato ed atteso lieto fine... con buona pace di quelle irriducibili femministe che, oggi più che in passato, vorrebbero la realizzazione della donna nell'affrancazione dal sesso maschile e nella perpetua rinuncia all'amore e alla famiglia.

Intelligente e lungimirante, moderna e raffinata, e all'occorrenza romantica seppur estranea a qualsiasi forma di sentimentalismo, George Eliot è entrata di diritto, con questo romanzo, nella rosa dei miei scrittori preferiti.
È un'autrice che scrive in modo assolutamente non femminile, ma che del suo sesso mostra tutta la sensibilità e la prontezza d'intuito; una donna che ha precorso i tempi ma che non si schiera a priori dalla parte delle donne: ella guarda all'essere umano in quanto tale, e sa essere concreta e razionale senza per questo cedere alla disillusione o scivolare necessariamente nel pessimismo, come dimostra il bellissimo epilogo del romanzo: un epilogo drammatico per qualcuno, certo, ma realisticamente felice e soddisfacente per molti altri... proprio come la vita reale.

Ogni limite è un inizio e una fine. (...) 
Perché il frammento di una vita, per quanto tipico, non è il campione di una trama uniforme: delle promesse possono non essere mantenute, e un ardente esordio può essere seguito dal deterioramento; forze latenti possono trovare l'occasione da lungo attesa; un errore commesso nel passato può imporre una grande riparazione.”
 
Non so dire perché George Eliot non goda oggi della stessa popolarità di tanti suoi contemporanei; quel che è certo è che, con la sua vastissima cultura e la singolare padronanza di ogni argomento che sceglie di affrontare, ella si colloca, insieme a pochi altri eletti, nella ristretta cerchia dei fuoriclasse del romanzo, costituendo una preziosa rarità nella storia della letteratura, e indubbiamente un unicum, nella sua epoca e non solo, tra le autrici di sesso femminile.

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