Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Sándor Márai: Le braci
L'estenuante ricerca del senso dell'esistenza umana.

“Guardiamo in fondo ai nostri cuori: che cosa vi troviamo? Una passione che il tempo ha soltanto attutito senza riuscire ad estinguerne le braci.”



È una sera d'estate del 1940, e nella solitudine della sua stanza, in un antico castello ai piedi dei Carpazi, un uomo si prepara ad un incontro fatidico: un incontro che ha atteso pazientemente per una vita intera.
Henrik, questo il suo nome, è un generale a riposo che in quelle stanze ampie e malinconiche ha trascorso gran parte della sua esistenza fianco a fianco con i propri fantasmi, gli stessi che lo tormentano da ben quarantun anni e quarantatré giorni: vale a dire da quando la sua strada e quella del suo fraterno amico Konrad si sono improvvisamente divise, senza una parola, senza alcuna spiegazione, lasciando nel cuore di Henrik soltanto lo spettro di una verità amara e inconfessabile: quella di un legame proibito, e fino ad allora insospettato, tra sua moglie Krisztina e l'inseparabile compagno della sua gioventù.
Dopo decenni di lontananza, però, Konrad è tornato in Ungheria, e quelle domande troppo a lungo rimaste in sospeso, forse, troveranno finalmente una risposta.

Pubblicato nel 1942, ma tradotto per la prima volta in italiano soltanto alla fine degli anni '90, Le braci - generalmente considerato il capolavoro dell'ungherese Sándor Márai - è un libro particolare, fortemente introspettivo e a tratti quasi filosofico, che lo stesso autore dichiarò di non amare molto, perché, a suo dire, eccessivamente romantico.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, tuttavia, al centro del romanzo non troviamo una vicenda amorosa, bensì la storia di due ragazzi - uno aristocratico e incline alla vita militare, l'altro di famiglia modesta e dalla spiccata sensibilità artistica - uniti da un'amicizia  “seria e silenziosa”, ci dice Márai, “come tutti i grandi sentimenti destinati a durare una vita intera”.
Nonostante l'utilizzo di una voce narrante esterna, il punto di vista adottato è quello dell'ormai anziano Henrik, che nei capitoli inziali - a mio avviso i più belli - rievoca i momenti salienti della sua infanzia e della prima giovinezza: la sofferta condizione di bambino timido e bisognoso d'affetto; il profondo legame filiale con la bambinaia Nini; e soprattutto la nascita del rapporto simbiotico con Konrad, ragazzino d'origine polacca, orgoglioso e amante della musica, spinto da due genitori di scarsi mezzi ma pieni di aspettative, ad intraprendere una carriera - quella militare, appunto - del tutto inconciliabile con le sue reali predisposizioni.

Fulcro principale della storia è senza dubbio il generale: un uomo tutto d'un pezzo, introverso ed ostinatamente ancorato al passato, per cui i ricordi non sono mai proiezioni nostalgiche di un tempo lontano, né un balsamo benefico contro le ferite dell'anima, bensì il mezzo per alimentare incessantemente quel rancore che lo divora, quella
“forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione. Ti costringe a vivere... L'uomo vive finché ha qualcosa da fare su questa terra.”
E quale sia questo "qualcosa", lo comprendiamo nella seconda metà del romanzo, quando, trovandosi finalmente di fronte all'amico, il generale lo costringe a ripercorrere con la memoria gli eventi passati, esponendogli senza requie analisi, sospetti e congetture formulati nel corso di quegli interminabili anni, spesi, forse inutilmente, alla ricerca di una spiegazione plausibile.

Sono pagine, queste, pervase da una forte staticità narrativa e interamente dominate dal senso dell'attesa: un'attesa spossante e dilatata oltre l'immaginabile, che il lettore stesso riesce a sentire quasi fisicamente e che, poco a poco, pare sovrastare ogni altro aspetto del racconto, al punto tale che, se fossi stata meno certa dello spessore di Márai, avrei pensato seriamente che quella tensione costante fosse solo un escamotage per ovviare alla mancanza di una trama reale.
Ma non è così: perché la trama, in fondo, è proprio quella dei pensieri, dei timori mai esplicitati, dei silenzi divenuti assordanti tra quei due amici che il tempo ha reso estranei, o che forse, in fin dei conti, tali sono sempre stati.
È qui che Henrik si abbandona a un lungo ragionamento sull'amicizia: un sentimento che, nelle sue parole, viene progressivamente idealizzato fin quasi a diventare un'entità metafisica spogliata di ogni connotazione concreta e realistica: un'amicizia da un lato utopistica - non soggetta a delusioni, al di sopra di qualsiasi turbamento materiale, talmente disinteressata da riuscire ad accettare di buon grado persino il tradimento - dall'altro, descritta come una legge inflessibile, percepita come una sorta di condanna a cui non è possibile sottrarsi.
Pagina dopo pagina, l'intenso monologo del protagonista, da apparente atto d'accusa verso l'amico perduto, si trasforma in una vera e propria conversazione con se stesso, in un onesto tentativo di far chiarezza dentro di sé, non più in relazione ai fatti accaduti quarant'anni prima, ma nei confronti della vita, del suo significato, e del valore reale o presunto dei sentimenti.
Sono molte le riflessioni che affiorano in questi frangenti: riflessioni a volte profonde e acutissime: vedasi le intuizioni sul ruolo dell'affinità spirituale nelle relazioni umane, o il passo relativo alle confidenze superficiali erroneamente scambiate per amicizia:
“Le simpatie che ho visto nascere tra gli uomini sono sempre naufragate, alla fine, nelle paludi dell'egoismo e della vanità. Il cameratismo o l'affiatamento assumono talvolta le parvenze dell'amicizia. Gli interessi comuni producono talvolta situazioni che somigliano all'amicizia. E per sfuggire alla solitudine gli uomini indulgono volentieri a rapporti confidenziali di cui in seguito si pentono, ma che per qualche tempo permettono loro di illudersi che la confidenza sia già una forma di amicizia. Naturalmente in questi casi non si tratta mai di vera amicizia.”
...altre pressoché superflue, ridondanti o fastidiosamente imbevute di retorica, dove il ragionamento lucido e penetrante del principio lascia spazio ad un avvicendarsi di considerazioni poco meno che farneticanti e al limite del paradosso: è il caso, ad esempio, della parte dedicata al tradimento, o dell'ipotesi esplicitamente formulata secondo cui il principio della fedeltà sarebbe solo una pretesa egoistica e in contrasto col vero amore: è forse giusto - si domanda il narratore - pretendere che la persona amata sia fedele, se ciò le causa infelicità?
“Cos'è la fedeltà, e possiamo imporla alla persona che amiamo, pur desiderando solo di vederla felice? Ho riflettuto molto anche su questo. La fedeltà non è forse una sorta di terribile egoismo e vanità, come lo sono la maggior parte delle esigenze umane? Quando esigiamo fedeltà, come possiamo volere che l'altra persona sia felice? E se non riesce a sentirsi felice nella prigionia della fedeltà, e continuiamo a tenervela rinchiusa, possiamo forse dire di amarla?”

Sándor Márai (1900-1989)
Sarò sincera: non è stato facile esprimere un giudizio su questo libro; non lo è stato, innanzitutto, perché per la prima volta mi sono trovata di fronte alla bizzarra necessità di conciliare una valutazione oggettiva generalmente positiva, con un'impressione soggettiva di segno diametralmente opposto.
Per quanto sul piano intellettuale abbia compreso, e non di rado anche apprezzato, le riflessioni del protagonista, ciò che nella lettura mi è mancata è, per così dire, la comprensione emotiva della sua dimensione più intima. Un po'come nel caso di altre opere fortemente incentrate sull'interiorità di un personaggio, quali Le notti bianche di Dostoevskij, o Villette di Charlotte Brontë, credo fermamente che per apprezzare un libro come questo serva innanzitutto "sentirlo", empatizzare col protagonista, fare proprie le sue emozioni... e questo, purtroppo, mi è risultato impossibile.
Se mi si chiedesse di analizzare il romanzo da un punto di vista puramente letterario, difficilmente potrei esimermi dal lodare la prosa di Márai, la sua capacità d'introspezione, la sua abilità nel creare suspense... Da semplice lettrice, al contrario, fatico enormemente a reprimere la profonda insofferenza che ho spesso provato mentre leggevo: un'insofferenza generata in parte dal tentativo più o meno consapevole dell'autore di proporre il vissuto di un singolo come il paradigma ideale dell'esperienza umana generale; in parte dal fatto che, malgrado la presenza di Konrad, Márai non ci dà mai la possibilità di ascoltare le sue ragioni, e sceglie di presentarci esclusivamente la versione di Henrik.

Come se non bastasse, dopo aver espresso incessantemente il proprio desiderio di fare chiarezza sul passato, ed aver dichiarato più volte di aver vissuto per quarant'anni soltanto in vista di quel momento, il buon generale si accorge, tutt'a un tratto, che la spasmodica ricerca della verità dietro cui si è affannato per tanti anni, in fin dei conti, non ha più nessuna importanza.
E così, il lettore, che per amore di quella stessa verità - o magari solo per soddisfare una comprensibile e genuina curiosità! - ha sopportato pazientemente pagine e pagine di estenuanti elucubrazioni, tormentose domande ed accurate analisi psicologiche, non può fare altro che rassegnarsi all'idea che le risposte tanto a lungo agognate, resteranno per sempre avvolte nell'oscurità... o per meglio dire, tra quelle stesse fiamme che hanno consumato implacabili l'antico diario di Krisztina, e con esso la vita stessa di coloro che, per troppo tempo, vi hanno cercato invano il senso della propria esistenza.
“Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che un giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, fino alla morte? E non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione? E a questo punto mi chiedo: la passione è veramente così profonda, così malvagia, così grandiosa, così inumana? Non può essere che non si rivolga affatto a una persona precisa, ma soltanto al desiderio in sé?”

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