Louis Bromfield : Autunno

Q uando lo sguardo si posa per la prima volta sulla copertina di Autunno , dello scrittore americano Louis Bromfield , a catturare l'attenzione non sono né il titolo - di per sé piuttosto banale - né il nome dell'autore - ai più pressoché sconosciuto - bensì la graziosa illustrazione realizzata in origine da Pierre Brissaud per la rivista parigina La Gazette du Bon Ton , in cui sono ritratte alla perfezione tutte le sfumature della stagione autunnale: i caldi colori della natura che muta aspetto, il soffio sottile e persistente dei primi venti settembrini, e il palpabile velo di malinconia che pervade il periodo dell'anno in cui cadono le foglie, quasi a suggerire un'analogia - implicita eppure percettibilissima - con la vita che scorre inesorabile verso l'epoca della maturità , tra i rimpianti per un'esistenza ormai trascorsa e l'impossibilità di recuperare il tempo perso. D'altro canto è proprio così che andrebbe interpretato quell' Autunno -

Kate O'Brien: Mary Lavelle.
Storia di una trascurabile esperienza di lettura.

Chiunque ami leggere, o frequenti dei lettori, avrà sentito pronunciare almeno una volta nella vita la fatidica frase: “Non ho scelto io questo libro: è stato lui a scegliere me!”.
Ammettiamolo, c'è un certo fascino nell'immagine del lettore che entra in libreria e, attratto magneticamente da una bella copertina o da un titolo allettante, finisce col portarsi a casa un libro del tutto sconosciuto, destinato poi a rivelarsi, con grande stupore dello stesso acquirente, un autentico capolavoro in grado di superare le sue aspettative più rosee...
A me, purtroppo, questa strabiliante fortuna non è mai capitata: nessun libro mi ha mai "scelta"!
Ce ne fu uno, in realtà, che una ventina d'anni fa, quando ero ancora piccola e relativamente ingenua, ebbe l'ardire di tentare... ma doveva essere - poveretto - un libro piuttosto miope, o per lo meno con le idee parecchio confuse, perché la sua "scelta" si rivelò quanto mai infelice, e dopo una burrascosa esperienza durata sì e no una cinquantina di pagine, decidemmo di comune accordo di andarcene ognuno per la propria strada, per manifesta incompatibilità di vedute.
Da allora - tenuto conto anche dei miei gusti un tantino esigenti - al romantico spirito d'avventura proprio dei lettori più intraprendenti, ho sempre preferito anteporre un po' di sano senso pratico. Perciò, prima di considerare seriamente di comprare un libro, preferisco documentarmi un po' sull'autore e sulla trama, a meno che, s'intende, non si tratti di uno dei miei scrittori preferiti, nel qual caso - e solo in quel caso - non mi faccio problemi ad azzardare il famoso acquisto a scatola chiusa.
Eppure, anche così, non si può essere mai completamente al riparo da eventuali incidenti di percorso, come dimostra la mia esperienza non proprio esaltante con una certa signorina irlandese dai riccioli color rame e la pelle bianchissima, che risponde al nome di Mary Lavelle.

Scritto nel 1936 dall'irlandese Kate O'Brien, ma fino a pochi anni fa inedito nel nostro Paese, il romanzo ruota intorno alla figura di una giovane donna - Mary, appunto - che conduce un'esistenza tranquilla e assai convenzionale nel villaggio di Mellick, in Irlanda, dove suo padre, un uomo anaffettivo e indifferente, esercita malvolentieri la professione di medico. Costui, considerando la figlia abbastanza bella da potersi trovare un marito, ha ritenuto superfluo impartirle un'istruzione adeguata; perciò, all'età di soli ventidue anni, ignara del mondo ma già sufficientemente disillusa, Mary si rassegna all'idea di un decoroso futuro come moglie dell'onesto John, un giovane pragmatico e dedito al lavoro, a cui è legata da tempo da un affetto sincero ma privo di slanci.
Se, però, il lato più razionale di Mary accetta di buon grado la sicurezza ed i moderati piaceri della vita che l'aspetta, una parte di lei rifiuta istintivamente il giogo di un destino impostole da altri; così, quando per caso le si presenta l'opportunità di trascorrere sei mesi ad Altorno, in Spagna, come istitutrice di tre fanciulle presso la facoltosa famiglia Areavaga, la ragazza decide di non lasciarsela sfuggire.

Quando ho incontrato per la prima volta il personaggio di Mary Lavelle, così inesperta, insoddisfatta, e assetata d'indipendenza, il pensiero - sia pure per un istante fugace - è andato automaticamente alle più celebri eroine brontëane con la loro involontaria modernità e l'incrollabile determinazione a lottare per trovare il proprio posto nel mondo... Ma si è trattato, appunto, soltanto di un'impressione passeggera: perché quella che emerge chiaramente, ad uno sguardo appena più attento, non è certo una versione novecentesca di Jane Eyre o di Agnes Grey, bensì la figura incolore di una ragazza senza particolari qualità, con poche idee in testa, ed una totale inconsapevolezza di sé e dei propri sentimenti.
Disavvezza alla riflessione ed abituata ad agire non secondo i dettami della coscienza, ma soltanto in base a dei principi che le sono stati inculcati, e in cui, però, ella non crede davvero (o, per meglio dire, in cui non si è mai neppure posta il problema di credere o meno!) Mary, una volta giunta in Spagna, si troverà costretta per la prima volta a guardarsi dentro e a fare i conti con gli sconvolgimenti inattesi che il contatto con quella nuova realtà finirà per scatenare dentro di lei.

Lo scenario pittoresco della terra iberica, luogo di antiche consuetudini e stridenti contrasti, costituisce senza dubbio il principale elemento di spicco del romanzo. Con le sue piazze chiassose e i porticcioli brulicanti di vita; con l'innato senso di familiarità che mitiga le convenzioni e le differenze di classe; con le sue controverse tradizioni in cui l'austerità del sentimento religioso si coniuga con la giovialità di un folclore profano, la Spagna appare molto più che un semplice riferimento geografico: diviene, piuttosto, il cuore pulsante dell'opera, un'entità fisica di cui riusciamo a cogliere ogni percezione e nota di colore: dall'animato vociare lungo le stradine di Cabantes, al calore del sole settembrino sulle spoglie pianure della Castiglia, passando inevitabilmente per la corrida: quel connubio d'impeccabile eleganza e cruenta efferatezza in cui l'anima contraddittoria della Spagna trova la sua più autentica espressione.

“La corrida” Pablo Picasso, 1901

“Era la morte messa in scena tra costumi eleganti e ottoni da circo, giocata secondo il vecchio rito del pollice, con formule da marionette e tempi sincronizzati. L’aveva vista, la corrida sgargiante, e tutta la consapevolezza che fino a quel giorno aveva acquisito di se stessa fu stravolta, come c’era da aspettarsi, dall’insostenibile e cinica crudeltà. Non c’era scampo, e in quel momento di distacco da se stessa, in quel momento vago e inafferrabile, la verità irruppe, e lei l’ammise. Ma nel frattempo un’altra personalità, nascosta, nuova, meditava tra quegli attimi appena trascorsi, rivedeva svolazzare il mantelletto fulgido e, immobile, scolpito, con le scarpette da ballerino, l’uomo che aveva permesso al pericolo di lacerargli il costume di seta […] la libertà più selvaggia tradotta in commedia e la ferocia naturale gabbata da un omino scaltro dal costume elegante. Tutto per far applaudire la gente…”

Proprio l'esperienza della tauromachia, così sconcertante ed affascinante al tempo stesso, rappresenterà il vero punto di rottura nell'esistenza di Mary: se, infatti, il viaggio in terra straniera riflette idealmente il cammino della protagonista verso la scoperta di sé, sarà appunto la corrida a simboleggiare il culmine di quel medesimo percorso interiore, diventando metafora - e anticipazione - della perdita dell'innocenza: realtà, questa, che per Mary avrà il volto di Juanito, il primogenito degli Areavaga, un giovane avvocato, sposato e padre di un figlio, con un promettente futuro in politica.


“Un romanzo d'amore superiore, intelligente e di largo respiro, colorito e non convenzionale”
Così Mary Lavelle è stato definito sul Times Literary Supplement - come ci viene ricordato sulla copertina dell'edizione Fazi - ma onestamente, dopo aver voltato l'ultima pagina, mi sono chiesta seriamente se l'autore di quella fuorviante recensione non avesse per caso letto un romanzo differente, o se magari, la spiegazione di quella frase non risieda piuttosto nel diverso significato che alcuni di noi attribuiscono a determinate parole.
Già, perché comunque la si voglia mettere, la vicenda narrata da Kate O'Brien non è affatto una storia d'amore, né tantomeno l'irreprensibile Juanito può essere considerato l'anima affine a cui la protagonista, legata suo malgrado ad un altro, vorrebbe disperatamente unirsi per raggiungere la felicità.
Incrociatisi appena un paio di volte, senza peraltro essersi mai scambiati più di qualche tiepido convenevole, Mary e Juanito sono due perfetti estranei spinti l'una verso l'altro da una pura e semplice attrazione fisica; due persone immature la cui relazione si riduce ad un estemporaneo ballo in piazza, ad una passeggiata casuale in quel di Toledo, e ad un momento di passione accecante consumata furtivamente nel folto del bosco; il tutto condito da una serie di surreali dichiarazioni d'amore (in che altro modo definire gli assurdi giuramenti di eterna devozione tra un uomo e una donna che, fino a quel momento, si erano a stento rivolti la parola?!) e da una manciata di dialoghi che, per stucchevolezza e banalità, non avrebbero niente da invidiare alle peggiori telenovelas dei giorni nostri.
“Mi hai chiamato “amore” due volte, oggi», disse, e la voce gli tremò. «E se ti chiamassi anch’io “amore”... Oh, Mary, ma come potrei? Cosa significa per te?».
«Questo. Mi sono innamorata di te, Juanito, dalla prima sera...».
«Anch’io. È stato più forte di me. Ma perché dovrei pia­certi?».
Le rivolse il volto pallido con una supplica che rasentava la rabbia.
«Non lo so perché. È così».”
E ancora:
“Dal giorno in cui ti ho vista ho vissuto nello sgomento e nell’infedeltà. Sei incredibilmente bella, e così innocente e sublime, che t’ho creduta il mito che distrugge ogni uomo, anche il più onesto e dignitoso! Ma è così? Sei un’eccezione fatale che annienta la normalità, o è una volgare attrazione che provo e questo solo uno spettacolo? Sei il mio amore assoluto... o una mera illusione?».
[…]
“Mio cuore, cosa c’è? Mi odi adesso?».
«Penso a domani».
«Perché a domani?».
«Juanito! Debbo partire domani».
«Sì, torni in Irlanda... ma dubito», rise, accarezzandola, «che riuscirai a viaggiare!».
«Dolcissimo amore!».
«Domani sarà un giorno bruttissimo, ma non mi angustia. Quest’amore è per la vita. Ci ameremo sempre».
«Sì, io ti amerò per sempre...».”

Mary, va detto, è, sotto molti aspetti, una vittima dell'educazione ricevuta: di quella mentalità che la spinge ad accettare di sposare un uomo di cui non è innamorata, semplicemente perché egli corrisponde al classico ideale del "bravo ragazzo"; la stessa mentalità che le impedisce di sottrarsi ad un ruolo che non desidera ricoprire, perché è lei stessa incapace di concepire per sé un futuro diverso da quello che le è stato prospettato.
L'insofferenza che prova, dunque, la si può comprendere facilmente, così come si può comprendere la sua vulnerabilità di fronte alla scoperta di quei piaceri che fino ad allora pensava le fossero preclusi per sempre.
Ciò che invece, personalmente, ho trovato assai meno facile giustificare - o, per meglio dire, ciò che mi ha lasciato realmente perplessa - è il fatto che, a dispetto delle esperienze vissute, dei tormenti patiti e dei dilemmi affrontati, in lei sia difficile ravvisare un effettivo percorso di maturazione o un'autentica evoluzione caratteriale e morale.
Certo, l'incontro con la gente di Altorno e l'infatuazione per Juanito le aprono gli occhi e la costringono a mettere in discussione la sua vita, ma di fatto, l'unica conoscenza di cui Mary - la cattolicissima ragazza di campagna sempre incline a scandalizzarsi per le innocue civetterie delle sue connazionali - si appropria, è semplicemente quella della propria sessualità: una sessualità che però, checché se ne dica, ha ben poco a che fare con l'amore e con la comprensione della propria personalità, che al contrario resta del tutto irrisolta, e forse perfino piu confusa di prima.

La locandina del film tratto dal romanzo nel 1998
Anche sul piano meramente strutturale, il romanzo - dominato da un ritmo lento e dalla tendenza ad indugiare continuamente sulle medesime situazioni - appare, a mio avviso, piuttosto debole.
Nella prima parte, l'autrice, sacrificando quasi interamente la componente narrativa, dedica ampio spazio a delineare il profilo caratteriale dei singoli personaggi: ci racconta le loro vicende pregresse, ne analizza minuziosamente il vissuto interiore, passa in rassegna le loro emozioni, le loro aspettative, e scava con meticolosità nella loro mente sfiorando non di rado la speculazione filosofica. Ne derivano così delle figure potenzialmente interessanti: come la petulante e precoce Milagros, quattordicenne amante della letteratura e della politica, o come suo padre Don Pablo, un uomo frustrato, che in gioventù ha sacrificato le proprie ambizioni sull'altare di un amore pericolosamente idealizzato, ma che con gli anni ha imparato ad apprezzare i moderati piaceri della vita domestica, sperando di riscattare se stesso nel successo dell'amato figlio.
Purtroppo, malgrado le premesse, ben poco di questo ricco materiale trova il proprio ruolo all'interno di un'opera tanto colta nella forma e nelle tematiche, quanto povera nell'effettiva sostanza.
Il principale problema del romanzo, però, resta senza dubbio l'incapacità dei protagonisti di conquistare le simpatie del lettore: un discorso che vale tanto per Mary - scostante ed asettica malgrado gli intenti dell'autrice - quanto per i suoi comprimari: dal suo vacuo amante, che ancor più di lei difetta totalmente di personalità, all'ottuso fidanzato, completamente cieco di fronte al disgusto che le sue effusioni provocano nella promessa sposa.
La sola figura potenzialmente interessante è quella di Agatha Conlan: istitutrice di non più verde età, nota per il suo carattere severo e introverso, e per l'insolita comprensione della cultura ispanica, che si troverà inaspettatamente avvinta da un'attrazione irrazionale e drammaticamente in contrasto con la sua profonda fede cattolica. Peccato che il suo ruolo resti sotanzialmente sullo sfondo.


(1897-1974)
Sul piano stilistico, a onor del vero, a Kate O'Brien vanno riconosciuti diversi meriti:
non solo per via del suo indiscutibile spessore culturale e della sua scrittura elegante e meticolosa, ma anche per la singolare abilità che dimostra nel riuscire a trovare il lato poetico perfino in una situazione di per sé al limite della prosaicità, arrivando quasi a nobilitare - sia pur nello spazio esiguo della pagina - sentimenti che ben poco hanno di elevato, e che rispecchiano se mai tutta la debolezza e la fatuità dell'essere umano.
Sfortunatamente, come spesso accade in questi casi, una volta spogliata dei suoi raffinati orpelli, la storia si rivela semplicemente per quello che è: un'amara vicenda di ordinaria mediocrità umana, culminante in un epilogo aperto che, lungi dal sciogliere i dubbi sul futuro della protagonista, nel mio caso non ha fatto che accrescere le già numerose perplessità.
Ad esempio, per quale motivo l'editore italiano, nel presentare la trama al lettore, descrive la vicenda di Mary - di cui, di fatto, nessuno verrà mai a conoscenza - come uno "scandalo" destinato a sconvolgere la vita di tutti?
O piuttosto: sotto quale punto di vista una figura come la sua meriterebbe di essere considerata un modello positivo di emancipazione femminile?
Davvero è sufficiente sfidare le convenzioni, indipendentemente dai motivi e dai modi in cui lo si fa, per guadagnarsi questo titolo?
Pensiamo sul serio che assecondare i propri istinti senza preoccuparsi delle conseguenze - o, per meglio dire, temendo soltanto gli eventuali danni che si rischia di subire in prima persona - debba essere considerato un segno di coraggio o un merito da esaltare? Mah!
In fin dei conti, però, tutto ciò neppure importa: perché quella che Kate O'Brien intendeva raccontarci, probabilmente, era soltanto una vicenda come tante, una vicenda di persone quali potremmo incontrarne dovunque nella vita reale, con le loro convinzioni troppo fragili e i loro vani egoismi.

“Era una storia vera. - ci assicura la O'Brien - Vera come la corrida, sant'Iddio, e altrettanto bella.”

Ecco, appunto. Forse, allora, il problema è proprio questo.

Commenti

  1. Ciao, mi chiamo Julia, piacere di fare la tua conoscenza ☺️ approfitto di questo tuo ultimo post per dirti che sono arrivata sul tuo blog tramite Goodreads e mi sono chiesta come fosse possibile capitare solo ora tra le tue recensioni! Dico questo perché già al primo colpo d'occhio ho potuto constatare che abbiamo gusti davvero molto simili, e cominciando poi a leggerti mi sono trovata totalmente in sintonia col tuo modo di scrivere e di raccontare i libri che leggi: davvero una bella scoperta, insomma, per me che ho sempre piacere di incontrare persone che hanno ancora piacere di prendersi veramente del tempo per approfondire idee, pensieri, sensazioni, punti di vista suscitati dalla lettura.

    Già che ci sono, ne approfitto anche per dire che ho apprezzato moltissimo questa tua recensione. Non ho letto "Mary Lavelle", ma da grande fan della collana Le Strade di Fazi Editore mi aveva spesso attratta sfogliando il loro catalogo online. Raramente leggo le trame, perché mi piace addentrarmi nei libri sapendone il meno possibile. In questo caso, credo che la tua recensione mi abbia preservato da una lettura che non mi avrebbe entusiasmata poi molto e dato che la lista di ciò che vorrei leggere è veramente infinita, sfoltirla un po' è tutt'altro che un male!

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    1. Ciao Julia, il piacere è reciproco. Ti ringrazio moltissimo per le tue parole, e colgo l'occasione per dirti che anch'io sono sempre ben lieta d'incontrare lettori attenti e desiderosi di condividere le loro opinioni, in particolare quando sono fuori dal coro. 😉

      Ti dirò, mi è dispiaciuto essere così dura nei confronti di questo romanzo. Personalmente avevo delle aspettative piuttosto alte, ma temo che in parte ciò sia dipeso anche dalla quarta di copertina che, di fatto, risulta un tantino fuorviante. La O'Brien di per sé scrive bene, sarei curiosa di leggere qualcos'altro di suo, anche se penso non sia facile trovare altri suoi romanzi in italiano.
      Ad ogni modo concordo con te: i bei libri da leggere non mancano, quindi la delusione si supera facilmente! ☺️

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